Entrare nella vasca da bagno di ceramica beige consumata e un poco irruvidita dal calcare: questa l’impresa, oltrepassare la sponda con una gamba, poi tirare dentro l’altra, sempre aggrappandoti a qualcosa di veramente saldo, ma anche con qualcuno lì ad accompagnarti il corpo in un abbraccio\non-abbraccio, pronto a trasformarlo in presa decisa, nel caso, CHÉ SE CASCO NON MI RIALZO PIÙ, dici. Anche stavolta ce l’abbiamo fatta, senza intoppi e nemmeno troppa fatica, dai. Così ora, dentro quel palmo d’acqua caldissima, il punto diventa non scivolare. Ne hai il terrore, e l’acqua ti sembra un pericolo ulteriore, per questo ne metti poca, GIUSTO PER FAR STARE IN AMMOLLO I PIEDI, dici. Tra le ginocchia e il fondo della vasca hai posto un asciugamano bianco, come antiscivolo, ma ancora non ti senti sicura, no.
Era minuta, piccola, leggera, ma ce le aveva tutte addosso le false pieghe che la vita era stata in grado di farle prendere, enormi.
La lampadina della specchiera è forte, fa chiaro all’intero bagno, ché il lampadario a soffitto proprio non funziona: te ne lamenti da qualche anno oramai. E a questo punto ti domandi sempre, con parole diverse ogni volta, come ci si possa lasciare andare quando si è ancora giovani e si ha tutta la forza che serve per fare le cose. LA TRASCURATEZZA SE LI RIMANGIA, borbotti, pensando a le persone che stanno da te. Non avevi mai accettato l’assedio e il suo prolungarsi, ritrovarti a vivere, e ancòra, in una casa senza che fosse più solo la tua, ma è da un po’ che non me lo tiri fuori quest’argomento. Del resto, sono passati ben più di vent’anni da quando perdesti quasi ogni privatezza. Il bagno comunque esige che qualsiasi discorso sia tagliato corto: resti concentrata sulla tua insicurezza, sul compito che ci siamo date, sull’aria attorno che riesce a gelarti al minimo suo spostamento. Tra un’insaponata e l’altra ti bagno col soffione, per tenerti al caldo, senza però riuscire a far sciogliere quella tensione che ti attraversa il corpo intero, di per sé molle, del tutto molle – e la pelle: sottilissima, un tale velo che sembri quasi tutta verdeblù e, in certi punti, sfregare con un asciugamano ruvido sarebbe veder uscirne sangue vivo. STRANO, SEI INTERA STAVOLTA, NON HAI NEPPURE UNA FERITA, dico. È DA UN PEZZO CHE NON MI FACCIO NIENTE, ribatti compiaciuta. Ed è da più d’un pezzo che non tornavo, io. TI RICORDI QUANDO STAVO TUTTA UN’ESTATE E PER IL BAGNO VENIVO AD AIUTARTI SEMPRE IO, OGNI SETTIMANA? Oramai ti lavi a pezzi, dici, e ogni tanto ti affidi ad altri, anche se, quando sai che torno, anticipi o ritardi l’operazione. Troppo pericolo, troppa fatica, poi nessuno qui ti sa badare: una è approssimativa, non ha cura, una non ti dá sicurezza, non ha forza, una le ha tutte e per di più la senti estranea. SÌ, MA A LORO NON DIRLE QUESTE COSE QUA, DAI, NONNA.
Si rappresentava oramai solo col ridere e il piangere, o col sonno indifferente, che sopraggiungeva inaspettato sopra una sedia, in un angolo appartato ma anche a tavola. Era diversa, da tutti e, qualche volta, da sé.
Dunque eccoci qua. Di nuovo a insaponarti la schiena più e più volte, a bagnarti, a tenerti la spalla per creare una resistenza al tuo tendere in avanti mentre ti lavi per bene tra le pieghe della pancia, sotto le sacche dei seni, in mezzo a le cosce venose e affastelli battute sorprendenti su questo corpo che ci àncora alla morte, sul tuo che si è così trasformato un po’ alla volta – neanche tanto lentamente, comunque, va detto: non è vero che hai avuto tutto il tempo, nonostante siano stati già molti gli anni. NON FARMICI ANDARE DI MUSO, ridici appena senti che mi sto distraendo, TIENIMI. E io rafforzo la presa, agganciando i polpastrelli alla tua clavicola sinistra. QUEL BUCO DIETRO COME TI SEMBRA DALL’ULTIMA VOLTA? mi chiedi pensando all’affossamento giù, in mezzo all’area lombare. È UGUALE, dico con decisione. Poi recuperi il filo della tua autobiografia raccontandomi per l’ennesima volta di quando ti fecero comprare il busto, che poi non sei mai riuscita a mettere: per quel respiro che ti manca, il senso di soffocamento che ti assilla da una vita, quei polmoni sempre più malmessi che, sei convinta, saranno loro a ucciderti.
Era tutta voglia di vedere il nuovo ancora, lei, di uscire, essere in mezzo a qualcosa, non stare da sola. Era l’intenzione a guarire e anche la rassegnazione: era già tutto, vecchia e bambina.
Grande impresa sarà lasciare la vasca ora che tutto è umido e qualsiasi cosa s’è fatta scivolosa, tranne me. Inoltre hai le gambe rattrappite da tutto quello stare in ginocchio, ti sembra di non farcela. Mi s’incide nel cuore questo tuo stringermi le braccia riscavalcando la sponda, aggrappata come io fossi la salvezza di chi penzola nel precipizio, diosanto, come mi contagia l’umano veleno dei tuoi novantanni, come trapela tutto quanto da questo sforzo estremo. Dura pochi secondi, tuttavia. Riprendi fiato, ti siedi sulla tavoletta del water, quindi ti lascio sola, ché ogni corpo al bagno necessita di celebrare un poco l’intimo, stare con se stesso soltanto. Resto dietro la porta però, sai che accorrerò al minimo segnale. Come di consueto, torno dentro che ti sei asciugata per bene e hai iniziato a indossare la biancheria che avevi preparato sin dall’alba, assieme a gli asciugamani e la tua saponetta personale, il tutto tirato fuori dal comò dove hai in serbo il necessario per quando ti si dovrà vestire per la cassa – con massima cura dei dettagli. Ti allaccio il reggipetto, ché sennò dovresti fare come ogni giorno, mettertelo indosso col dietro per davanti, chiuderlo e poi girarlo. ERA PIU’ DI UN MESE CHE NON MI FACEVO IL BAGNO, E MICA MI LAVAI BENE COME ADESSO, PER NIENTE, dici, e sorridi.
Lei era tempo finalmente senza linea, riarticolato da quei piani mischiati di memorie. Contro ogni apparenza, era la fine dello stato di necessità, ora che il senso non poteva più disintegrare il cuore, né alcunché.