Dentro a una grande AUTO e placidamente prendersi al Brennero il nevischio con direzione del tutto opposta: per un breve tratto all’andata e, poi, per il medesimo pezzo al ritorno – ancora quei puntini insistenti a scagliarsi contro lo sguardo e alla stessa velocità, come se non fossero passate delle ore, né fosse stata fatta della strada.
Le conferenze e i loro rituali mica li reggo, in genere. Stavolta, inoltre, ben poco davvero poteva essermi d’interesse quel buttar fuori caglio d’intelletto che dovrebbe servire a fare ancora prodotti, immateriali, va bene, sempre degli artefatti però, e sempre ingombranti, altre aggiunte al tanto che già c’è. E poi il post-conferenza, la cena, i blablà, le doverose derive AUTObiografiche, a partire da la relatrice che racconta un pezzetto di sua vita modulando in apparente naïveté retoriche dell’avventuroso e, assieme, dell’eroismo rifiutato. E c’è un altro che si narra un poco raccontando quanto di bizzarro ci fu nel proprio bel periodo americano. C’è certo dell’altro, comunque: ci sono cioè anche il naan e altri cibi nepalesi. Qui è Innsbruck, a pochi passi dall’università – visto niente attorno. Ascolto quello che capisco, io, mangio e aggancio l’AUTOriflessività al presente, a quello che sento e che vorrei ora, e cioè un angolo riparato da tutto l’umano e le sue cornici, per esempio starmene per conto mio a fumare piano. Vorrei l’astrazione al grado massimo, ma anche al medio – m’accontenterei. Vorrei cioè stare ben fuori da quel che attraverso – e mi contraddico, sì, perché è inutile ingannarsi: non sono più capace di stare dentro a niente, no. E comunque, nell’impossibilità, e quindi in concretezza, diciamo che quel che voglio è diventare velocemente grassa e quindi subito morire, ma nel frattempo vivere in isolamento dagli umani tutti e dal grande bluff che s’AUTOalimenta.
Sull’AUTOmobile, di nuovo. Gran sete dopo il fumo. Penso all’acqua e, sempre, alla morte accompagnata, presa a braccetto, assecondata. Cerco un modo, perché ci credo, io, a una morte-pace da programmare o, meglio, e più semplicemente, da accogliere: perché in ogni caso è proprio domani che verrà, lei. Intanto però c’è il rientro a Bolzano, il lasciarsi sfiorare da la neve sul ciglio e sui rami, chiudersi quindi dentro a l’odore del fumo fissato sui capelli come fosse la barriera più certa contro il sentimento d’errore e sapesse assorbire, esso soltanto, quell’idea di tempo tradito, umiliato, dato in pasto a un planetario altrui. Già il letto, freddissimo. La fortuna è che presto inizia a suonarmi dentro, l’acqua, stavolta non cercata, quella che passa per un mio estremo punto viaggiando verso il mio ignoto e irraggiungibile centro – per riempirmi e nel contempo contenermi.
Così diventa tutto un AUTOassolversi: finanche del sé eccentrico, del noi. È il dormire, ovvero la fine temporanea, vana, e non salva alcunché.