Con una corsa è venuta a suonarmi al citofono, da due case più in là. Le apro il cancello, l’aspetto sulla porta, quindi l’invito ad entrare. Si toglie le ciabatte, spiega che non vuole bagnare il legno del pavimento. Due parole e mezza sul meteo, poi dice che m’ha portato della lattuga. Me la mostra, aprendo il sacchetto bianco e invitandomi a buttarci dentro gli occhi. Domanda se questa varietà mi piaccia. Non rispondo; la verità è che la varietà della lattuga è tra le poche cose che mi lascia veramente indifferente. Me ne rivela anche il nome – che non ho imparato. Il sottinteso è che si tratta di un tipo pregiato e che non è facile da far venire su. Non le do granché corda, ma mi rendo conto benissimo che dovrei invece complimentarmi, poi ringraziare per la condivisione. Ho un mattino di quelli che ogni diversità anche lontanamente percepita sembra una montagna che mi sta per schiacciare – e questa donna m’è diversissima. Comunque, lei è venuta soprattutto a raccontarmi qualcosa, si capisce. Sabato, quando nessuno era in casa, “un moretto s’è attaccato al campanello chiamando SIGNORA, SIGNORA, SIGNORA..”. C’è rimasto a lungo, con la testa appoggiata alle sbarre del recinto. Sembrava un disperato. Non s’arrendeva, suonava e chiamava. Ha perfino girato per dietro, sulla stradina. C’era Laica, dentro, che abbaiava forte, così forte che lei la poteva sentire da casa propria. “Sì” dico, “era un po’ che non li vedevo. Ne è venuto uno anche Venerdì”. “Ma cosa vogliono, come si permettono di andare a disturbare la gente nelle case?”, fa lei. La correggo: “Beh, dai, nelle case! Suonano il campanello, chiamano, niente di più”. “Eh, ma con che insistenza!”, lei precisa. “Mah, di solito non sono tanto insistenti. Dipende..”, faccio io. “Sì, dipende da chi si trovano davanti. Da me mica ci sono mai venuti. Va ben, un paio di volte sì, ma adesso non mi suonano, no che non mi suonano!” spiega, precisando che neanche agli altri campanelli suonano più – solo al mio. Aggiunge che d’estate ci ha visti qualche volta farli entrare in giardino a pranzare con noi, una volta addirittura vide me che apparecchiai solo per uno di loro e gli feci da mangiare una quantità di roba che non finiva più, mancava solo mettessi il vaso di fiori sulla tavola “come al ristorante. Ci rimasi male, dissi a mio marito: MARIAVERGINE, LA TIZIANA DA’ DI MATTO”, ride. Non dico niente io, mentre banalmente mi chiedo se da quella stupida finestra di cesso lei segua gli accadimenti nel mio giardino a occhi nudi o col cannocchiale. Nominare la vergine le avrà fatto ancora più tosta la faccia, perché aggiunge: “Sai, Tiziana, non dovrei dirtelo, ma tu sbagli”. Ed io: “Tu dici?”. “Sì” risponde, “perché li abitui. E invece dovrebbero arrivare a capire che il sistema nostro, qua, è un altro. Da come fai tu, non lo capiranno mai”.
Un sotto-quartiere di Gioia e il mattino che mi s’annuncia col bisogno improvviso d’un treno. Non c’è traccia della linfa e del blu versati dalla notte. E le case non lasciano entrare ancora niente delle prime traslazioni, dei rinnovati patti tra il morire e i motori, dei suoni che erano vere e proprie voci – ed io non l’avevo capito -, di certe linee pronte a entrarti nell’occhio, delle poche persone in giro che si scambiano cose come non fosse tra sconosciuti. Pure nei bar ancora entra niente, tutto sommato. Me ne sto al tavolo con affianco lo zaino rigonfio e un foglio arrangiato sotto la penna, che scrive d’un blu intensissimo. Immagino odori che commuovano, in arrivo, per esempio di pane caldo, o di fiori estivi. Poi penso a tutta la disattenzione – civile, incivile – che, come una camicia sulla spalliera della sedia, se ne sta buona ad aspettare il giorno per essere indossata con intenzione e un certo grado di sicurezza di sé. Uscirò di qui non appena il ritmo là fuori sarà ben sbilanciato su il chiaro e le sue occupazioni – e ancora avrò un anticipo enorme sul primo treno utile. Farei pure in tempo a tornare in albergo, se all’improvviso scoprissi di aver dimenticato qualcosa di fondamentale in stanza; faccio mente locale. Mi viene alla memoria una tunica lunga e nera lasciata nel cestino della spazzatura, ma si trattava di diversi alberghi fa. Niente di scordato, comunque. Un uomo è l’unico cliente del bar, oltre a me, che ci sono arrivata dopo di lui dentro a questa fiacca da luce al neon e audio televisivo di sottofondo. Con retro-accento tra il pugliese e il lucano, sta discorrendo con la barista, che fa gesti e azioni pieni di lentezza. La questione ruota attorno a una loro comune conoscenza, un tizio il quale, nonostante le numerose ingiunzioni del tribunale, nega gli alimenti a figlio ed ex moglie. Fa risultare d’essere senza entrate, lavorando per lo più in nero. L’ex moglie, però, sa bene dei soldi che gli girano, così ha deciso di fargli la guerra. “E ha ragione” dice lei, abbozzando un accento campano-milanese. Ho intanto ordinato il mio caffè doppio. L’ho chiesto in tazza grande, ristretto ma con acqua tiepida d’allungo. “Brava” mi dice l’uomo, “fa meno male allo stomaco in sto modo qua. Eeeeh, però al cuore fa male sempre. E lei lo prende anche doppio!”. Domando: “Il cuore? Cos’è?”. Lui: “Un muscolo, dicono. Ci fa da motore, dicono, come il motore della macchina”, sghignazzando divertito. Dico: “Ah. Comunque sta già abbastanza male, quindi.. chi se ne frega. Del mio cuore, intendo”. E lui: “Aahahahah, lei è ancora giovane, può ancora permetterselo, quel male là. Sono cose che passano, sa?”. “Tutto passa, sì. Magari ci vuole una lunga vita, ma passa” faccio. Ride: “Ecco, lo vede che è d’accordo con me? Lo vede che si deve riguardare? Lo vede che le serve una vita lunga? Quanti ne prende al giorno?”. “Non li conto”, dico. Quindi lui: “Lo vedo che lei ha la tremarella: ne prende assai, si capisce. O sbaglio?”. Rispondo che si sbaglia, che non ho la tremarella, non per ora almeno. Sghignazzando ancora, continua: “Beata lei, che quel cuore là ce l’ha. Noi a una certa età non possiamo nemmeno più permetterci di avercelo”, ammiccando alla barista, che interviene: “Noi chi? Di chi stai parlando Ottavio? Parla per te, eh!”. Ridiamo tutti e poi lui: “No, no, non intendevo noi-io-e-te! Te sei giovane. Intendevo noi-quelli-come-me, che hanno passato i settanta. Fino ai sessantacinque, settant’anni puoi star sicuro che quel cuore lì ti funziona, e ti serve, ma dopo..”. “Mah, se serve non lo so..” fa lei, e io: “Già, a volte fa solo casino”. “Bravissima, questo intendevo!” esclama, sdormentata ormai del tutto. Quindi Ottavio: “Come la fate difficile voi altre, fortuna che è arrivato l’extracomunitario, buongiorno!”. “Buongiorno. Qui anche questa mattina a rompere le scatole?” fa il nuovo venuto, sorridendo. L’anziano, come tra sé e sé: “Ah, sti extracomunitari!”. La donna: “Ben vengano! A fare colazione, e anche pranzo” e Ottavio: “Certo, già che è pieno di loro, se neanche fan girare i soldi, a che servono?”. Il giovane: “Soldi, soldi, voi italiani ce l’avete sempre coi soldi”. Lei: “No no, noi non ce l’abbiamo con i soldi, anzi!” e ridono tutti. L’arabo, però, dopo poco aggiunge: “E questo è il problema vostro: li volete troppo bene, ai soldi”. Il vecchio: “Perché? tu no?”. La barista: “Il tuo tè, pronto”. Il ragazzo ringrazia, ossequioso, e guadagna distanza da loro, spostandosi dal bancone al tavolo sulla mia sinistra. Ottavio: “No no, io non dico niente. Però, nel mio condominio, un abusivo che non paga affitto, spese condominiali e niente, s’è appena messo la porta blindata, s’è messo! Non so io: non hai i soldi e metti la porta blindata?! Allora li hai, i soldi! È che ti guardi bene dal tirarli fuori!”. Il giovane: “Ma dai, ma dov’è che abiti!?”. Lui: “Eh, in un condominio popolare abito, io, mica in un palazzo di lusso come te!”. L’altro sorride. La donna chiede delucidazioni su la porta blindata, insinua che il condomino, straniero dell’Est, forse ha qualcosa da temere, affari loschi, soldi sporchi da nascondere, una vendetta da aspettarsi. Mette quindi in guardia l’anziano, che ora sghignazza davvero forte e dice che ne ha viste troppe, oramai, perciò non ha paura più d’alcunché. Aggiunge che certo non sono solo questi i problemi della convivenza in un condominio di povera gente. Ci sono questioni così insidiose che a volte ci si potrebbe pure scannare come niente fosse. Si riferisce a l’odore di cucina magari sin dall’alba, a il fritto e la cipolla, a il soprannumero, la voce alta, la mancanza di riguardo per le cose attorno, “insomma, il menefreghismo è il problema”, dice. E la donna: “Di quello ce n’è assai in giro! Siamo grandemente menefreghisti anche noi, tutti”. Non è d’accordo, Ottavio: “Eh, lascia stare, va là! Noi un minimo di rispetto per le cose comuni ce l’abbiamo. Loro no. Loro, poi, non hai modo di farli rigar dritto, questo è. Non serve dirglielo, non serve spiegare come ci si comporta, non servono le sanzioni. Sto dicendo: non puoi cercare d’insegnargli, perché non apprendono mica, loro”. Il ragazzo ed io non diciamo più una parola: su Messenger a chiacchierare con altri, lui, e ad affondare in ragionamenti banali, io – su la fine di quella cosa che per gioco ed economia avevamo chiamato CUORE.
[E sono state tuttavia mattine d’acqua, tutte e due]
Io prima o poi ti stampo tutta e ti leggo su carta, vado in ordine cronologico? O per categorie? Boh … ma ribadisco tu sei da leggere su carta.
non sono mai stata brava a gestire le lusinghe.. ma ammetto che quanto dici su la mia scrittura mi fa bene. Non viziarmi peró 😉
Non sono avvezza a lusingare alcuno, credimi. E’ cosa che non mi appartiene. Sei dannatamente brava e non posso fare a meno di dirtelo. Proprio non ci riesco.