Si può dire che io abbia trascorso tutto il tempo a camminare, oggi. Così mi sono trovata ad attraversare per ben cinque volte il centro storico, che m’è sempre piaciuto attraversare per quel senso di compressione tra un’improbabile ideale città del rinascimento e la moderna esasperazione del decadere, tra l’apertura all’altro come improvvisazione e il suo irriflettuto fallimento. Più precisamente, è agli zingari che questo posto si fece aperto, e sono sempre stati zingari senza musica, per quanto fino a pochi decenni fa le gonne lunghe delle donne, i loro capelli sempre raccolti nello chignon basso e i grandi orecchini a cerchio alimentassero almeno quel fascino dell’esotico che fa sempre stare la gente un poco meglio. Fin dal dopoguerra, pochi per volta, hanno preso a stanziarsi in abitazioni che allora erano del Comune e che in seguito hanno affittato o comprato da privati. Non che io abbia mai avuto qualche cosa contro, anzi. È stato attraversando il centro storico sin da quand’ero infante – la mia nonna paterna ci abitava dentro – che ho imparato che c’è chi è più altro degli altri eppure ci puoi fare scambi, fossero anche solo di sguardi. E m’è sempre parsa una gran cosa.
Inoltrandomi dunque per una delle viuzze con Laicatozza al guinzaglio, ho scorso tra un paio di bimbi e un paio di donne accomodati davanti a un uscio – le sedie sulla strada – due teste enormi di cane. E poiché mi fido dei cani ma non di quelli degli zingari, perché loro sono soliti dedicarsi ad attività avventurose, ho sperato che fossero legati. SE QUELLI LÌ SONO ZINGARI, CI VUOLE POCO A CHE QUEI CANI SIANO STATI ADDESTRATI PER I COMBATTIMENTI, ho pensato. E ho avuto un momento d’esitazione quando uno dei due ha puntato lo sguardo verso di noi, ancora lontane, distanziandosi dal suo gruppo con alcuni movimenti eleganti e assai lenti. Tanto più che una delle donne ha iniziato a fare: GIUSEPPE.. GIUSEPPEEE! GIUSE’.. GIUSEEEEEE’! Nel frattempo io avevo rallentato di molto il passo, ché ci stavamo avvicinando troppo noi e il pitbull taglia grande color biscotto e bianco, palesemente giovane e baldanzoso. Lei ha ancora chiamato Giuseppe dicendogli che doveva venire fuori a occuparsi dei cani, ché stava passando una con cagnetto appresso. Così quel po’ di fiducia che serbavo s’è neutralizzata, mi sono fermata. Aspettavo che uscisse Giuseppe, che però non s’è visto. Allora, sempre ad alta voce, lei: SENTI, TI CONVIENE FARE UN GIRO DIVERSO, CHÉ QUESTI SONO PITBULL, rivolta ovviamente a me, che invece ho fatto un altro metro e mezzo verso di loro, giusto il tempo di figurarmi la cana massacrata mentre si riparava guaendo tra la mie braccia, massacrate anch’esse. Insomma ho visto lei morire smembrata e me invece dissanguata per il Von Villebrand di primo tipo, così ho girato subito a destra, il primo vicolo utile, pensando: FANCULO, STRONZI.
Quindi abbiamo cambiato zona, ci siamo portate verso l’assembramento di brutte casette dietro a recinti e a mini cani goffi con le corde vocali gonfie di pazienza. Non ho visto un fiore che mi togliesse un poco di dosso il fastidio, a parte qualche oleandro fucsia, che è troppo ambiguo come fiore, per piacermi a bastanza. Non ho visto una faccia che apparisse dolce nei cortili, o per strada, sui balconi, e neppure una che tradisse piena presenza. Tutte parevano lì come per caso e con ogni voglia già al suo rassegnato termine. Ad un punto, però, ho sentito odore forte di fico, e mi sono stupita: per la prima volta mi capitava che l’odore d’un albero di fico precedesse la sua comparsa, come è frequente invece con i pini marittimi e i cipressi, un po’ anche gli abeti. Quando ho svoltato l’angolo e cercandolo l’ho visto in un piccolo giardino strapieno di disordine e di verde, era un albero enorme, multitronco e molto ramificato, quello che mi riempiva gli occhi. Poco frondoso, aveva tuttavia parecchi fichi. Parevano ancora acerbi. Tra essi ce n’era uno dimezzato che mostrava sorprendente un interno rubino, parecchio saturo. E il vivo d’un frutto dimezzato sul suo ramo può aprire alla meraviglia e a molte considerazioni, se non ti capita d’incontrare subito dopo, sbattendoci letteralmente la faccia, una tizia con la quale hai avuto molto a che spartire nella tua infanzia.
Non la vedevo da più di qualche decennio. M’ha detto che sono sempre uguale. Le ho detto che lei è un po’ ingrassata. M’ha parlato dei suoi figli. Ho fatto: BRAVI. M’ha domandato del lavoro. Ed io, servendomi di tutta la ferocia d’una spietata così detta immaginazione sociologica, ho chiesto delle sue vacanze di quest’anno. VACANZE, SEEEE. MA CHE! STI GIORNI PER ESEMPIO SONO ALLE PRESE COLLE BOTTIGLIE DI POMODORO E TU TE LO RICORDI BENE COSA SIGNIFICA QUI DA NOI FARE I POMODORI, fa lei. BEH, IO SO COSA SIGNIFICAVA, avrei voluto dire, ma mi sono sentita soffocare e ho tagliato corto, CIAO. Ci sono le cose che ti portano chissà dove e quelle che ti tengono ferma, a stagnare. Ho sempre pensato che per fortuna noi siamo plurali e possiamo assecondarle un po’ tutte. Possiamo lasciarci portare altrove e possiamo farci tenere bloccati, persino in contemporanea, anche per sempre. Ora però non lo so più quanto sia fortuna.
Volevo da qualche parte lasciarti un grazie, anche perché ho visto che non hai solo seguito il mio blog, l’hai anche esplorato e mi ha fatto molto piacere. Così sono venuta anch’io a esplorare un po’ in giro e ho visto molte belle cose, un modo di raccontare davvero particolare, che colpisce. Insomma, ben trovata e a presto!
Alexandra
mi sono sempre chiesta se quell’essere plurali non ci venga proprio nell’interazione con alterità… come fosse una nostra disposizione, misura d’ascolto, di risposta, talvolta anche di difesa, tra più piani compresenti di realtà in cui ci troviamo, ci scopriamo, ci inventiamo…
mi rispondo spesso che è così, sì, e mi pare cosa buona. Però capita che a volte ci si affacci all’indietro e ci si riveda dentro a sfioramenti neppure avvertiti, incontri mancati, facce del tutto perse. E quasi sempre non sarebbe potuto essere che così: per via, penso, delle diverse (limitate) possibilità di riconoscimento di cui ognuno s’è potuto via via fornire, alle quali sono significativamente connessi il sentire, l’immaginare.. Questo limite pesa tantissimo, trovo, per ognuno, per il mondo. Cerco di perdermi il più possibile, io, per uscirne. Però chissà.
ci si disorienta/orienta tra i sensi che tanto avvertono, nei passaggi, tanto perdono, come tu osservi, si… Tutti gli incroci possibili e impossibili, tutta la vita e l’immaginare, anche… Quanto si coglie, si tiene, quanto si disperde…
Domande poni, ti poni, che tante volte incrocio anch’io tra i miei passi tra-scorsi e tra i miei passi a venire, e… Perdersi in immersioni di percezione, con-fondersi, distinguersi, farsi sete ed estinzione di sete, riemergere coscienza di durata…
non so, come dico sempre: “non so”… prima era dubbio questo “non so”, poi è diventata chiave di una continua ricerca mentre si vive…
alla prossima!
notte buona