Acqua. Giallo.

Olga tenta d’aggiungere qualcosa al giro di parole che si va allungando attorno alla questione che oramai è un cruccio da mercatino, quasi moda: essere non normali, nel senso buono di speciali, cioè distinguersi in qualche modo. Ma è troppo deviata dal controllare il suo cane che tira il guinzaglio giallo verso la fontanella senza rubinetto, del tutto asciutta.

Il Corno Grande e il Corno Piccolo lì davanti sembrano innocenti, persino benevoli, in pacifica attesa proprio di te. Poi però imbocchi il traforo e ti senti presa in un ventre, che ti chiude. Ti senti come se stessi andando a finire, inesorabilmente, e pare non sarà rinascere stavolta. S’era in pieni Ottanta quando il traforo aprì all’utenza, anche se ci volle ancora una decina d’anni perché prendesse a funzionare a due tunnel, dopo circa un quarto di secolo dall’inizio dei lavori. Ricordi quella sensazione d’altrove facile, di velocità? Seduceva anche chi non aveva proprio motivo né voglia di andare oltre la montagna. Il solo fatto che ora fosse disponibile una connessione rapida con Roma vi faceva come scivolare tutti più dentro al mondo, giusto in mezzo. Soprattutto, però, l’apertura significò un poco chiudere col tragico che era andato via via crescendo attorno alla traforazione: la decina di morti, la rottura dell’enorme serbatoio sotterraneo, tutte le immaginate conseguenze. Fu il momento dell’ondata di leggerezza collettiva, della soddisfazione liberata – di chi poteva finalmente sentirsi riguardato in qualche modo da un’opera grande e compiuta. Da allora la statale 80, prima la più diretta via per l’Ovest, è diventata quasi deserta, e bellissima, al punto che neppure quando sei al valico delle Capannelle il mal d’auto arriva più, tanto sa rapirti l’intorno.

La questione alla quale Olga prova a dare un contributo è stata sollevata da una delle sue amiche. Prima si discorreva di tutt’altro: dei chioschi bar-ristorante che stanno spuntando dentro a i parchi e i parchetti cittadini. Si stava senza troppa presenza in un piccolo parco, appunto, io a far pascolare Laica e Olga il suo irrequieto meticcio biondo, quando sono capitate le altre e si sono fermate con lei, esercitando voci acute all’eccesso. Quanto giallo si portavano addosso: la maglietta di una, il panno delle scarpe dell’altra, la borsetta. Rimanendo poco distante, ho provato a focalizzarmi sulla conversazione appena ho sentito dire: QUELLA NON È NORMALE, con riferimento a chissà chi.

L’acqua nelle case arrivava di solito bene di mattina, dall’acquedotto del Ruzzo. Andava quindi perdendo via via pressione, fino a diventare un filo e sparire del tutto nel primo pomeriggio, moltiplicando le mansioni delle donne, gonfiando le loro braccia e la pazienza, deviandole dai Settanta, dove avrebbero potuto farsi favolose. Ai terzi piani, poi, capitava sovente che a ora di pranzo non venisse fuori già più acqua dai rubinetti. Perciò, nel caso l’impianto idrico dell’appartamento non fosse dotato d’autoclave, il che era spesso, bisognava fornirsi di secchi tra bagno, cucina, terrazzi; si doveva far tutto con l’acqua messa via. Nel condominio, soltanto Tina possedeva un’autoclave, vostra unica vicina di pianerottolo, tua amatissima. Bianca e rosa di pelle, grigia di capelli, aveva nelle parole i suoni dolci del dialetto di Pescara e nei piccoli occhi un grigiazzurro che sapeva di mattino sereno e fresco con ogni tempo e ogni ora. T’intenerisce sempre l’immagine di lei che vi dà acqua portando un tubo giallo di gomma trasparente da casa sua alla vostra vasca da bagno. C’erano anche giorni nei quali l’acqua non ce la faceva proprio ad arrivare al terzo piano, neanche la mattina, e per quanta ne fosse stata serbata, si finiva col restare a secco. Allora tua madre si faceva più e più volte i tre piani del giallo condominio anni cinquanta con un secchio a destra e uno a sinistra, riempiti alla fontana giù in cantina: perché Tina è sempre stata quella che si sarebbe tolta un braccio e anche una gamba per voi, figuriamoci un altro poco d’acqua, ma tutti eravate come programmati per bruciare in un’umiliazione terribile trovandovi a chiedere qualche cosa.

Olga riesce a insistere attorno a un’idea: NOI SIAMO GENTE NORMALE, SENZA GRILLI PER LA TESTA, FACCIAMO QUELLO CHE CI VIENE, CHÉ TANTO È INUTILE FARSI PARANOIE DI QUA, PARANOIE DI LÀ, SEGUIRE CERTE BELLE FILOSOFIE CHE POI PERÒ FANNO ACQUA DA TUTTE LE PARTI. Le altre due sostengono che questo è proprio essere non-normali, perché la maggior parte si comporta diversamente. TUTTI FANNO GLI ALTERNATIVI ORMAI, SONO NORMALI LORO, NON NOI dice una alla fine, dall’alto del suo bel portamento, accentuato da un ampio abito lungo e scarpette in tinta con la borsa. Olga ride. “Normale” è una parola che uso ben poco, io; eppure mi piace molto. La tiro fuori all’occorrenza, insieme all’artiglieria pesante. Mi ci sono risoffermata un momento, mentre il cane di Olga mi lasciava impronte sui pantaloni. È stato lì che han preso a venirmi in mente, a pezzetti, certe vecchie, grandi poesie, una dietro l’altra, pure se del tutto fuori tema. Ho pensato quindi di andare a mangiare un gelato, passando prima da casa per prendermi un giubbotto, sebbene ci fosse gran caldo, poi d’ignorare le telefonate da fare, le mail e altre incombenze: cancellate.

La galleria, con tutte le macchie sulla parete e il povero allestimento luminoso, emana un certo squallore; del resto, non più di molte gallerie che hai attraversato ultimamente. A un punto la riduzione a una corsia, tramite la segnaletica gialla, crea  l’accesso ai laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, con parecchio del fuori luogo. Chissà la gente di qua attorno cosa ne sa, come lo vede, questo centro di studi. Laggiù, un tempo piaceva l’idea che  ci fosse, come se riguardasse, nel bene, i destini di tutti. Ora l’impressione è che a restarci affezionati siano quelli che hanno sempre bisogno d’una spiegazione legata al semidivino per le cose che capitano, d’un capro espiatorio inattaccabile e nient’affatto impegnativo: perché possono immaginarsi che da lì, dove fanno chissà che ricerche e di certo audaci sperimentazioni, provenga buona parte del nocivo e del canceroso di tutta una zona, ampia, anzi, ampissima. Provi a ripassare tutti i riferimenti collezionati su la questione, ma presto sopraggiunge qualche verso amato, sempre un poco urticante, di chi si guarda bene dal mischiare poesia e musica. Cerchi la custodia dei CD, mentre consideri che mai t’era capitata così vuota l’A24; sì, ti sembra d’andare a morire oggi. Invece decidi che andrai alla Fontana delle 99 Cannelle, per affidare un desiderio all’acqua, e sarebbe la tua seconda volta.

Olga e le sue amiche hanno cambiato discorso ancora. Una ha detto: IERI HANNO FATTO VEDERE UN SERVIZIO SU TIGGÌ-ABRUZZO E UN GIORNALISTA CHIEDEVA A UNA TURISTA QUI AL MARE COME MAI AVENDO SENTITO LE SCOSSE NON ERA RIPARTITA. LEI HA RISPOSTO CHE SI ERA IMPAURITA, SÌ, MA ERA RIMASTA, ANCHE PER SOLIDARIETÀ. È NORMALE CHE NON CI CREDE NESSUNO A RISPOSTE COSÌ, MA MI È PARTITO QUALCOSA E HO COMINCIATO A PIANGERE, MA DI CUORE! NON RIUSCIVO A CALMARMI, TANTO CHE CORRADO HA DOVUTO PRENDERMI UN BICCHIERE D’ACQUA. A questo punto mi sono ritrovata nell’infanzia, a ricevere il bicchiere d’acqua a ogni cosa brutta che capitava, dentro certe difficoltà improvvise, pianto o non pianto: un gesto che fino a un certo tempo m’è stato del tutto normale, ricevuto o compiuto, o visto ricevere, e compiere. Poi basta, mai più capitato. Mi sono ridetta che è nella nostra magnifica tensione all’incontro che soprattutto trova senso il normale, questo stramaledetto, il suo riconoscimento.

Sei voluta venire fino a L’Aquila tramite la strada facile. Una volta in città, non hai opposto certo resistenza al giallo – il tenue, il carico, il tipo ocra, il tendente all’arancio, l’ossido, quello zafferano. Non che sia davvero predominante, come colore, ma qua e là quante cose ne sono toccate. Si fonde col tuo, così poco interno oggi, poi con quello incastrato tra le pieghe sulle facce delle poche anime in giro. Poco a poco ti prende del tutto: il giallo delle gru, dei tubi di scivolo delle macerie, la tinta tenue e polverosa su certi intonaci dei palazzi, e delle stanze – intonaci all’apparenza integri, altri come residui minimi, altri invece appena rifatti. Ti prendono i numerosi triangoli di pericolo, poi i piccoli fiori su sfondo scuro d’un plaid raccolto tra calcinacci e altri resti, nell’androne d’una palazzina appena dietro al giro degli edifici toccati dalla ricostruzione. Ti prende il poliuretano d’una poltrona rovesciata, il secco di foglie giù dai vasi su un balcone. Forse più di tutto ti prende la protezione sui giunti bassi delle strutture metalliche tutt’attorno alle case – chissà perché. Nessun operaio in giro, è Sabato. Se non fosse per qualche gruppetto d’adolescenti nel porticato del palazzo dell’INA, per le suole rumorose degli invitati a un matrimonio, per un point di Casapound, per gli avventori del bar seduti ai tavoli, vocianti ma un po’ spersi come dentro a un cantiere di Sabato pomeriggio, oggi qui regnerebbe il silenzio. Se non fosse per Corso Vittorio Emanuele con la sua decina di turisti dallo sguardo rivolto troppo verso l’alto per essere passanti d’un centro cittadino, se non fosse per la bottega del fotografo che raccoglie beneficenza per i colleghi di Amatrice, poi per i chioschi di souvenir allineati nella piazza e poche altre forme d’un risorgere per niente obbligatorio, sarebbe il deserto. Qui sembra abiti il surreale, equilibrista tra incalcolabili livelli del tempo che sfoggia le sue oltraggiose facce. Ciononostante, o forse proprio per questo, v’imbastisce una bella danza la vita, comparendo con intermittenza, facendo come il lampo. Sta per esempio dentro folate inattese e fredde, a sferzarti nel caldo pomeridiano. Arrivano dalla pietra, da dentro le case più antiche, anch’esse in qualche senso aperte, lesionate, a volte sventrate, quindi staffate, spesso protette contro le intrusioni. E a ogni ventata a te pare si sia fatta la perfetta congiuntura per morire: fremi. Tutte le volte poi però lo capisci quasi subito che, appunto, era vita, specialissima, e per qualche istante ne godi. Alle 99 Cannelle mica sei più andata. Hai bevuto col cane a una fontana qualsiasi, per strada, mentre lasciavate il centro – e il giallo tutto quanto già dentro.

L'Aquila 03sett2016

8 pensieri su “Acqua. Giallo.

  1. L’ho letto con grande attenzione. Bellissimo il ricordo dell’acqua nel condominio e dell’autoclave di Tina. Comincio a vederti in un contesto. Quanta vita sai dare alle cose, anche a quelle ferite e al mondo! Tornerò a leggerlo ancora e ancora, ci scommetto. Ciao T.

    1. No, no invece lo rileggero perché mi importa , mi interessa. Non lo faccio ora ché ho il cervello spappolato e sono pure tutta agitata. Mi sono appena mangiata al telefono una collega stronza che al suo posto non ci sa stare. La cara Svirgola è cara e buona ma se le pesti i piedi tanto dolce non è. Scusa se sono andata in po’ fuori tema e ti ho usata da “sfogatoio “. Era per decongestionarmi. Ciao e buonanotte.

    2. Acc! Che ti fece mai la collega spostata? Però magari mangiarla è stata un’esagerazione, forse. Hai avuto problemi di digestione, il sonno disturbato, poi, immagino.. Che sogni hai fatto?

    3. Sì, sì … ho esagerato. Non l’ho mangiata. E’ un donnone di un metro e ottantacinque. Sarebbe stata davvero indigesta. L’ho rimessa al posto suo con tre o quattro parole però. Non tollero i modi di fare subdoli, non diretti. Credo che mi abbia capito bene ieri sera. Almeno lo spero. In quanto ai sogni … non li ricordo mai.

    4. 🙂 beh, se era unmetrottanta allora hai fatto proprio bene a non mangiartela (anche io vorrei non ricordare i sogni che faccio negli ultimi tempi..)

  2. la galleria come emblema di modernità con quella “sensazione d’altrove facile” (nè più nè meno come internet) e l’acqua che scarseggia al terzo piano come segno di arretratezza. Il brano ruota su questi due perni (o almeno li uso io per leggerti) e appunto ruotandoli ci fai vedere i limiti della modernità (quell’inculcarci esigenze che in realtà non abbiamo) e certi pregi dell’arretratezza (la solidarietà che si è persa assieme alla pudicizia delle proprie ristrettezze).
    piaciuto, ovviamente.
    ml

  3. L’ho riletto oggi. Come mi è successo l’altra volta anche oggi mi viene voglia di piangere. Lo sventramento della montagna e il terremoto con tutto il giallo che vi si collegano … e l’immagine di te che ti rechi alle 99 Cannelle “per affidare un desiderio all’acqua” mi commuovono profondamente. Se me le raccontassi in presenza non potrei fare a meno di abbracciarti forte (gesto che io uso di rado ché a casa mia i sentimenti si “controllano”, non si devono “manifestare” necessariamente, retaggio dell’educazione di una madre spietata). La “Tina” mi apre il cuore, il modo in cui descrivi i suoi occhi è meraviglioso. Grazie di questo post. Forse è tra i più belli di quelli che ho letto. Ciao T. 🙂

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