TALESTRE.me(5)

PARLEREMO DOMANI O AL MASSIMO DOPODOMANI DEL CONIGLIO E DEL DUEMILAQUATTRO, FIDATI, gliel’ho promesso, ché la sensazione è lei stia per andarsene. Ha detto che avrebbe atteso il necessario, peró un po’ accigliata. Avrei voluto discorrere di qualcosa di leggero ora, ma non mi veniva in mente un argomento che fosse uno. Forse è stato proprio perché la pausa di silenzio si stava prolungando fino all’imbarazzo, mio, che lei ha domandato come sia stata la cena fuori di ieri sera. Il terrore che producessimo un altro anche minimo pezzetto di conversazione sul mangiare ha scavalcato il muro di  resistenze assurde che mi separa il cervello dalla voce certe volte che si tratta di parlare e mi sono messa a raccontare del mio recente fulmineo giro a Bari vecchia. Me ne dissero per la prima volta 25 anni fa, anno più, anno meno – c’eravamo perse di vista da poco, io e Talestre. Mi dissero del centro storico e della sua bellezza ripristinata – queste furono le precise parole. Sostenevano meritasse una visita, restarci un po’ di giorni. Non ci diedi molto peso all’epoca. Tuttavia, ogni tanto, per un motivo o per l’altro, pezzi di quella conversazione mi sono tornati in mente, durante tutto questo tempo. Adesso finalmente ero di passaggio, e pazienza le ore scarse: pure in dieci minuti, se hai fortuna, una qualche cosa la trovi per nutrire il fiore che ti coltiva – e io in questo ho veramente fortuna. Lei ascolta, all’inizio un poco distratta, poi sembra provare a concentrarsi. Increspa la fronte, mentre penso che ne ha di rughe, ne è passato di tempo. Con il tono come di chi sta mettendoti a parte d’un essenziale pezzetto dell’inconoscibile fa: L’IMMAGINAZIONE TI TRASFORMA IL BACIO SULLA FRONTE OGNI VOLTA CHE TE NE RITORNA IL TOCCO, FIGURIAMOCI COSA PUÒ FARNE DEI POSTI. A VOLTE LI SQUARCIA, A VOLTE APPENA APPENA TI MISCHIA AD ESSI, ALTRE VOLTE TRACCIA SORPRENDENTI PERCORSI MINORI, TRA SEGRETEZZA E IMPUDENZA DELLE COSE. SEI FORTUNATA.
Ecco, sì, proprio come immaginavo: sa già tutto. Quanto non sopporto le assolute certezze su me.. Ad ogni modo, sono molto orientata all’esercizio della pazienza, stamattina, supportata da un sole tiepido che spalanca le finestre e incrocia buone vibrazioni dalle immagini sul monitor e fasci di granelli sospesi di gioia, mia. Whatsapp è rimasto aperto su un messaggio di ieri sera dove da lontano mi si diceva TU SEI LA MIA FAMIGLIA mentre io sentivo un non so che di gratificante, che perdura, a dispetto d’una me che non l’ha mai capito bene cosa dovrebbe significare, famiglia. LO SO CHE TE NE ANDRAI PRESTO, dico alla mia vicina di gomito, mentre guardiamo verso il fiume ingessato. Poi riprendo la mia narrazione, senza bene sapere cosa ci sia d’interessante da dire riguardo al mio giro dentro a Bari.

Ero già stanca a quel punto del giorno, affamata anche, e un poco ingoffita da memorie stupefacenti donatemi qualche ora prima da un paio di anziani a Brindisi, dov’ero stata di passaggio e molto al volo, anche lì. M’interessano sempre le narrazioni così, fatte dai non accreditati, quelli a sufficienza fuori dalla comunità dei titolati. M’interessano parecchio, contraddicessero pure la storia in blocco. Non andavo certo in cerca di purificarmi col romanico, dopo i giorni immersi nel barocco e il quasi rococò leccesi. Non avevo tempo per la basilica, la cattedrale, il castello, ma neppure ne avevo voglia. Giusto una manciata di passi feci, scegliendo un punto a caso, attraversando qualche silenzioso incastro della luce incanalata da vie mute, senza più i mille bambini di Finibusterre, e non so se era per l’ora – le due e quaranta, due e cinquanta. In ogni caso, sembrava essere il momento delle donne e me ne convincevo via via che m’inoltravo e ne incontravo: giovani, anche molto, grandi, o già vecchie, semi esposte, semi nascoste, indaffarate, distratte, tra il dentro a la stanza e il fuori da l’uscio. Erano cucine, o soggiorni, gli interni che si lasciavano sbirciare attraverso le tende semitrasparenti bianche, a volte tutte raccolte in parte. Tra piani terra e seminterrati, quelle stanze erano penombra: poca luce da fuori e, dentro, tanto marrone, con ogni incertezza dei gesti a neutralizzarsi in quella cura generale per oggetti tutti disposti, anche i più dubbi, secondo ovvi schemi razionali. Stavano spazzando e lavando a terra, alcune, colle sedie rovesce sui tavoli. Erano le donne del lavoro di riproduzione, le custodi dello stato delle cose, quelle senza tanti fragori, senza detonare, quasi mai. Altre, più numerose, facevano le orecchiette. A volte lavoravano nella stanza esponendo la pasta fuori dall’uscio, su tavole di legno naturale o grandi telai, e poi retine di copertura oppure nylon trasparente. Spesso lavoravano sedute fuori, a un piccolo tavolo, producendo movimenti automatici e rapidissimi, del tutto staccati dalla staticità della loro figura, fatta quasi sempre di curve ampie e allentate. Qualche televisore dava una luce ulteriore ad alcuni ambienti, lasciando scorrere scene private del suono – o il volume era così basso che a me, in strada, non arrivava un’A. Anche dalle loro gole non arrivava un’A, eppure stavano sempre in coppia: la vecchia con la grande, la giovane con la grande, la vecchia con l’assai giovane – intendo adolescente o poco più. Non concedevano sguardi ai pochi passanti e non si guardavano neanche tra loro. Certo non guardavano su quello che producevano, ma neppure tanto fuori dalla scena che ingaggiava le loro mani. Le ignorai tutte, io. Non prestai vera attenzione ad alcuna. Non comprai né le orecchiette a formato tradizionale, né quelle piccolissime, né quelle giganti. Non ebbi un sorriso per loro, non un saluto. Velocemente sgusciai via dal centro, un po’ come uno scarafaggio quando gli si fa luce improvvisa addosso.

Me ne chiede la ragione, Talestre. Rispondo che non la so, e lei attacca: QUEL TUO MALE CHE DÀ SEMPRE NUOVI NOMI AL POCO, S’AGGRAPPA AL MEDIOCRE, SCOVA SORRISI, DIVORA BELLEZZA, ASCIUGA IL PIANTO, ORA ERA TUTTO LÌ, FUORI DI TE, E PRONTO DA UN PEZZO. Resto nuovamente senza la certezza d’aver capito, ma che importa. Faccio: NON DIRE BELLEZZA! Ride. È un mio conto aperto, quello col concetto di bellezza, una vecchia storia, e ce l’ha ben presente anche lei, che però subito mi ridomanda cos’avessi avuto mai contro quelle donne. È CONTRO IL LORO LAVORO CHE POTREI AVERCI QUALCOSA, rispondo. Quindi spiego che mi sapeva di sotto-mercato e, se il mercato è azzardo di vite che non fanno a tempo a smascherare il bluff, il sotto mercato è dove meglio si nasconde, il bluff. Quel lavoro è l’oggi per il non-oltre-domani, il compito senza il ruolo, la negazione d’un riconoscimento, l’esistere da svuotare e reinventare ogni volta che c’è da mettere il vestito buono. E, per una volta che finalmente sento di riuscire a essere loquace anche con lei, m’interrompe accusandomi di fare la furba, perché si capisce benissimo, sentenzia, che il mio problema con quelle donne stava in un paio di memorie o poco più. In una ci sono mia madre e mia nonna, dice. Stanno sul terrazzo col caldo obliquo del pomeriggio estivo a cucire scarpe, da nascondere accuratamente per quando rincaserà mio padre; io sto ad imparare gli odori, mentre nella mia testa riscorre il nastro delle belle lezioni contro il lavoro nero che la mia maestra fascista va facendo alla classe. In un’altra memoria, poi, c’è quel giorno che ci stavamo solo io e mia madre a fare scarpe: lui ci scopre e tutto vola giù dalla ringhiera. Lo soverchia l’ira, come spesso, diventa brutto e spaventoso mio padre, che invece di suo era bellissimo, mentre segretamente io gli do ragione. FORSE È COME DICI TU, TALESTRE, MA ORA DEVO LAVORARE. Sorride: ECCO, APPUNTO, GRATIS, PEGGIO DI TUTTE LORO.

9 pensieri su “TALESTRE.me(5)

  1. Questo post credo di capirlo fino in fondo. Già. Un abbraccio cara T, scovatrice di sorrisi, divoratrice di bellezza e asciugatrice di pianto. Ma Talestre è una poetessa?

    1. Direi che mi hai spiazzata. Eppure anche no. Sentivo che c’era una “qualità altra” in Talestre. Una lontananza. Un mistero. Sai Talestre mi fa pensare a una storia che mi collegò anni fa da un altro blog a una persona incredibile che si firmava “Luce” nei suoi commenti. Tu me la ricordi tanto. Luce una volta mi raccontò una storia su di una rosa … è un po’ complicato. Dovrei ritrovare certi fili che ho perso ma quella storia ha molto a che fare anche con te e con Talestre. Quanto vorrei avere la forza di ricostruirla.

  2. gelsobianco

    “Quanto non sopporto le assolute certezze su me.. ”
    E quanto non le sopporto neppure io.
    Che bello scritto, T!
    Hai toccato molti punti importanti e differenti che destano emozioni contrastanti con uno stile che mi piace molto davvero.
    E Talestre? Il suo nome inizia con una T come il tuo avatar…

    Grazie.
    🙂
    gb

    1. Ciao gelsobianco! Grazie per aver letto.. Sì, è un bel problema (per me) questo ritrovarci dentro identità che sembrano non avere scadenza, per niente in grado di rimodularsi con una anche approssimata aderenza al nostro continuo profondo mutare. E quanto trovo più problematico di tutto è che a volte (spesso?) siamo noi stessi ad avere un’idea di noi (influenzata dall’esterno) ingessata e terribilmente ingessante :-/
      Talestre è un nome curioso (si ricollega al mito delle Amazzoni..). Il mio invece è tiziana.

    2. gelsobianco

      Oh sì, spesso siamo proprio noi a non accettare l’ idea di noi che cambiamo. Restiamo immobili purtroppo.
      Tutto è un mutare e se non lo seguiamo…
      Il mito delle Amazzoni è affascinante.
      Buona serata, Tiziana
      🙂
      gb
      Io non ho un blog.
      Non sono iscritta a nulla.
      Non posso lasciare “like” o “mi piace”.
      Amo commentare con tanta sincerità.
      Libera viaggiatrice del web mi fermo dove trovo interesse come qui da te.

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