Gracchiano le ruote sulla poltiglia di neve vecchia, mezza acquosa e mezza ghiacciata, spingono via quasi fosse niente il silenzio che avevo portato. Gracchio pure io, dalle ginocchia se le piego e gracchia una sagoma sul proprio claudicare – che mi sta nella testa, dall’altra sera. C’è qualcosa di così infantile in certe letture delle scene, un fuori gara, un respiro a oltranza almeno per un pareggio, ricompreso uguale pure nelle tregue, mai volute, sopraggiunte tutte di necessità.
Aspettavo il vero gelo affinché morissero zecche pulci e il loro parentado tutto. Ora, però, considero che le cucce, le case, ne salveranno a sufficienza: non ci libereremo, mai. Comunque, evviva il calorifero, dove finalmente torno a incollare la schiena, mentre il labbro di sotto, con gengive e palato, va a fuoco, ché il tabacco, gracchiante anch’esso a ogni tiro lungo, è già diventato un tratto minuscolo, da poterlo appena appena tenere con le unghie. Milano ieri, quasi in ogni punto, era sferzate gelide sul viso. Per contrasto, credo, ricapitai nell’inverno dell’anno scorso, inaspettatamente caldo, lambendo la stupefacente pispilloria da dentro certi alti abeti e, ancor più, dalle chiome ben chiuse dei cipressi, dalle siepi persino, nei giardini di Bolzano. Preferirei sempre questo gelo, tuttavia, coi cerotti su Brera e il biancore che mina il grigio dal suo stesso cuore, se non fosse che poi ti porta a farti ricurva nelle spalle, contratte all’inverosimile, e ti fa oltrepassare le soste senza coglierle, capire in tempo che ce n’era bisogno. Preferirei sempre questo gelo se i caloriferi ce li avessimo garantiti, incorporati, se non fosse che ne potremmo finire irrimediabili e irrigiditi già prima d’essere morti.
Ieri mattina Milano lasciava gocciolare giù dai cornicioni il ghiaccio che si liquefaceva sotto la luce del giorno e, stranamente, non aveva mezza carezza di cane, non un odore un poco più potente del freddo, anche cattivo e almeno in qualche punto, o colori che riportassero visioni di fiori futuri. Eppure la scena era tutto sommato gradevole, in quel tratto. A spartirsi distrattamente il grigio c’erano soltanto, mi sembrava, lavoratori di cantieri e artigiani, in spostamento, e poi, più tardi, un po’ d’agenti e pensionati, house keepers di fretta e sempre qualche portiere indaffarato, che andava dentro e fuori dagli androni. Non c’erano certo gli impacchettati della sera. Non vedevi metafisiche barbe hypster tutte belle sagomate a dare illusione di fattezze superlative, né tante caviglie a dialogare con uno slancio obbligatoriamente performato. Vedevi visi stanchi, invece, disegnati dalle ombre e dai gonfiori, scarpe spesso grosse e, talvolta, gran mazzi di chiavi giù dalla cintola. Ogni slancio, quando s’intuiva, era rinchiuso o nello sforzo d’avviarlo o nello sforzo di placarlo, d’impedirne l’accensione soprattutto, mentre i miei caffè, tutti tra il discreto e l’appena passabile, venivano preparati con movimenti quasi sempre d’una lentezza esagerata. Qua e là donne accigliate gestivano questioni pratiche: blablà al cellulare dando istruzioni fondamentali, ispezioni nella borsa e interrogazioni automatiche al proprio centro notifiche, poi i pezzi di brioche sotto i denti e quelli passati con spropositata imposizione al proprio bambino, i guanti rinfilati a fatica e il naso del piccolo ricacciato sotto la sciarpa, tra proteste e rassegnazione, ma sempre senza mezza piega di sorriso neppure accidentale. Più di tutto, però, mi colpivano certe geometrie regolari nelle camminate di vecchie signore, a filtrare il movimento tra gli acciacchi ordinari e il suolo in parte sdrucciolevole.
OH, TESORO, SCUSAMI, TI SCAPPAVA! NON ME N’ERO ACCORTA disse lei, un poco girandosi verso dietro, incerta da dentro al lungo piumino blu, rivolta al minuscolo cane che aveva al seguito. Lui, portandosi avanti a tre zampe, stava pisciando praticamente a volo, per mancanza della giusta massa da opporre al guinzaglio, il quale lo tirava, lo tirava ancora, piano, pianissimo, ma senza dargli neppure il momento d’una sosta fulminea. Poco dopo, a Missori, un uomo mastodontico, intabarrato di verde oliva, perse il cappello per una folata più forte e, mentre sostituiva il mezzo sgomento sul viso con un mezzo ghigno, fece: PERBACCO – era un secolo che non lo sentivo dire. Poi s’apprestò a recuperarlo, con fare affannato ma prudente, suonando CRAC-CRAC con le suole sui grossi grani di sale mal sparso. Intanto la sua voce, a un punto rotta dal piegamento accurato del busto, gracchiava: DOVE VAI? SE-SE-SE-NZA TE QUI IO CI MUOIO! Così, penando un poco, lo rifece suo, disincagliandolo da lì in mezzo a tutti i fiori-meraviglia delle stagioni andate ai quali avevo dato nome io – in ogni dove e sempre il medesimo, carico d’insussistenza. Poi arrivò il silenzio, spropositato, imponente, tremendo.
“se non fosse che poi ti porta a farti ricurva nelle spalle, contratte all’inverosimile, e ti fa oltrepassare le soste senza coglierle, capire in tempo che ce n’era bisogno”
qui mi chiudo e mi apro… riprendo il cammino, così…
ché chiudersi e aprirsi talvolta sono la stessa cosa…
un pulsare.. un respiro..
Meravigliosa che vedi un po’ tutto. Io non vedo più niente da giorni. Niente.
cosa accade, Svirgola?
E’ un periodo no ma passerà senz’altro prima o poi.