Quanto ci si ferisce e ancora – ognuno per sé, da sé. Però a volte è fortuna, specie se è marzo, specie adesso. Così oggi, il mondo, l’ho sorpreso incastrato in mezzo a violette sul banco, tra vecchi sudici arredi e la fioca luce d’un bar di periferia. E poco a poco lui m’ha stanato un tale odore da dentro, facendomi l’inenarrabile, poi accompagnandomi fuori. Così, eccole ancora le ribellioni tutte, in fila come vertebre d’un corpo storto che a malapena resta all’in-piedi. Ecco poi le danze e i tuoi silenzi, la mancata rinuncia a condurre, il respiro ampio e tuttavia le lagne, il recinto alto e i vetri aguzzi sul muro. Ecco il riverbero pazzo, un illuminare speciale e vasto – improvvisa mia assorbenza, improbabile e totale. Smetterà presto la nenia di parole strapiene e mute, e gli occhi rimbalzeranno mille volte, fuori da sé e da ogni rete, per perdere, cioè farmi finalmente perdere.
Intanto, che verdi esplodenti ha questo marzo, che sferzate animali, come gonfia le vene e quante storie nasconde dentro ai germogli, tra le increspature dell’acqua nel fiume, dietro al vento leggero, sotto i rapidi passi di tutta la gente che scorre, lontana, sull’argine aereo che cede, non cede, cede, non cede… Mi guardo. Ho minuscole perle di vetro al collo, come un giro stretto stretto di ghiaccio. Se mi tagliassi la testa? Ed eccole, tornano in sciame le differenze, solo nostre, tremende e bellissime. Ritornano, un po’ fosche e un po’ chiare ma arrese, senza più una domanda che possa valere. Sono semi leggeri e il ferro di chiodi da un palmo aperto a qui, sull’inguine vivo, a cadere pianissimo in mezzo ai miei brividi.