S.T.(2)

Un aereo mi sfiora, sovrastato da un altro: lontanissimi. Quella volta, indicandone uno sopra Venezia, dicesti: POTREBBE ESSER LÌ, MIO PADRE. La città ci usava come comparse, in mezzo a il mio stupore indicibile e mica tanto da sorridere – un nome ce l’avevamo da poco, ché già tutto scappava avanti. Potrebbe esser stato lì che santo cinismo imparò a salvarmi. La luce irrompe, attraversa le ciglia – mi ricordo. Il bicchiere sul parapetto trabocca, adesso. Gli oleandri nei vasi, l’argilla a sferette, la canna dell’acqua, la plastica rotta, il verde e un intero mondo pensile: tutto s’agita, ai cenni del vento, filtrando quanto la strada dice e ridice. Il velo e il rosa, il sole risorto, lo spicchio di luna, il verso giù nella pancia – aprire il cassetto, riprendersi tutto. SMETTILA DI STARE SOPRA A QUEI LIBRI, VIENI, STAI QUA: era mio padre davanti allo schermo – la tivvù – e io ubbidivo, ché tanto poi la notte era veramente mia, sotto il fascio buono della lampada, nell’angolo della stanza intasata di respiri battiti sussulti. Volevo avere garantita leggerezza, futura per me, presente e sempre invece per loro, sorella e fratello col peso dell’Esserci tradito già tutto da quei lineamenti notturni e i conflitti infantili del giorno. Però no, non siamo mai stati leggeri. Qui la notte stavolta era breve, con la sua quiete forzata dietro alle persiane e i pipistrelli in formidabili voli d’ombra da facciata a facciata. Dentro, il rumore del frigo, il fumo in casuali depositi, strati, la candela smorzata dall’aria, le bottiglie del vino finite, la carta già scritta e le pareti sporcate da altri. C’è l’organico, c’è l’indifferenziato; quasi niente ha a che fare con me, né riciclo, né ciclo. Comunque, i buchi nel muro, il sudore a gocce e il tappeto, poi cose e cose e, ancora, le cose fra le cose: cercarle dovremmo, stilarne la lista, inciderla fra costola e costola. Non sarebbe mai pronta. E noi finalmente saremmo con fierezza deformi, mutanti, spezzati e (s)composti, provvisti di tempo il più estremo (im)possibile, e provvisori del tutto, da dentro. Invece, ecco, finisce di nuovo che ci veniamo a noia; ma tant’è. Già il sole s’appoggia in faccia ai palazzi, li incornicia di chiaro, li stacca dal quadro, li fa specchi per l’Est, nascondigli alle ore, indizi del caldo: prossimo ormai,  asciugherà tutti i veli. Per ora comunque soltanto ri-sospende l’ortensia, laggiù, sfiorita da mesi. Le toglie l’acqua di nuovo, il peso notturno, la rifà piena di pace. Quel cancello, se vedi, è uguale al punto presso cui ci lasciammo – aperto e ferro – mentre Bologna ci usava come fossimo vasi. Ci sono asfalto e cemento, il rame d’un tubo, una bacheca e il suo vetro, gli annunci dei morti, scenette pacate, ordinari rumori, i rintocchi dal fondo: l’attenzione ostinata del giorno, e poi all’imbrunire uno slancio sfinito – a stremarci, svuotarci, farci cadere. Quasi veniva dal ghiaccio stamani il crepuscolo: contro la vena del collo, tra le ginocchia e le cosce, implorando il silenzio a la piazza e quel paio di tacchi insistenti. Cosí Padova m’usa quasi come platea, mentre non sono che un poco d’acqua di fiore. Imprigiono ad ogni costo un odore, sempre lo stesso, che copre, scorda, mischia. Genera: altri voli. Lontanissimi.