Non c’è molta differenza tra lo scroscio dell’acqua che t’arriva sotto l’autolavaggio e quello della pioggia da dentro la NSU di mio padre, che ho sempre in mente. Lui ed io ci divertivamo a navigare i temporali, coi tergicristalli impazziti e quei suoni magnifici che ci avvolgevano e si mescolavano ai battiti fattisi un poco più veloci. S’appannavano e schiarivano, i finestrini; si bagnavano, gocciolavano i capelli; taceva e sprofondava, il bisogno di dirsi qualcosa. Ci piaceva tanto davvero attraversare in macchina l’acquazzone, sì, coi colori del mondo finiti all’improvviso nell’abitacolo, ché fuori tutto s’era fatto dei toni del grigio: il torbido e il chiaro, le cose e le danze, un universo flessuoso, stupefacente a ogni svolta. Dentro, il beige dei sedili di finta pelle e le stoffe leggere dei nostri vestiti estivi erano un covo di resistenze immaginifiche, di slanci, sfide contro quello che eravamo stati fino ad allora e saremmo stati ancora dopo poco, e l’indomani, fino al prossimo temporale, noi difficili e rabbiosi, scritti da limiti che sentivamo profondi e interamente nostri, interni, debito eterno. Ma questa cosa qui a lei mica la raccontai.
Rita ed io stavamo attraversando un ciclo di lavaggio da dentro la sua Citroen quando mi parlò per la prima volta del paese che si apprestava a raggiungere nel week end successivo, dopo decenni di lontananza. C’eravamo appunto viste per una specie d’addio. Era inverno, era già buio e forse era Sabato, ché poi andammo a cercare una sala da biliardo. Facemmo chilometri, come due ossesse; non ci fermammo finché non ne trovammo una che avesse buona luce e l’atmosfera giusta, un grado minimo di affollamento, qualche figura intenta a passare il gessetto sulla punta della stecca, gente che prende le misure, fa calcoli misteriosi, col culo all’aria e il pacchetto di sigarette dentro alla tasca posteriore dei jeans. Noi a biliardo non sapevamo certo giocare. Era tutto il resto che ci interessava. O, più precisamente, ci piaceva l’idea di stare come dentro a un film, a la storia d’una notte che non ci apparteneva, storia inventata, una parentesi lampo, però tutta quanta nostra: ideata, incarnata e magari poi, un giorno, anche raccontata.
Mi parlò del paese, dunque. Disse che non sarebbe mai andata via se non avesse avuto una precisa visione quel tardo pomeriggio di un’estate durante il più forte temporale nel quale si fosse mai trovata, mentre camminava sul marciapiede, uscendo dal centro, nello sciogliersi formidabile delle deiezioni dei colombi. Non m’ha poi davvero detto di cosa si trattava, mai. Quella notte, facendo un po’ giocare le parole con le luci gialle e rosse dei dispositivi del lavaggio, disse solo che aveva visto come una strada tutta libera, senza traffico, dritta e a tratti con curve leggerissime ma sempre libera: TUTTA PER ME, DESERTA, disse, e quindi: SENTI CHE SUONO SOTTO QUEST’ACQUA, MI FA VENIRE DEI QUASI BRIVIDI, mentre io ridevo, perché il “quasi” era la sua cifra fondamentale, ce lo metteva sempre, dentro ai discorsi, e ai non-discorsi. Era un po’ il suo modo di tenere i piedi per terra, ancora adesso che aveva sperimentato cento strade e nessuna veramente libera. Era il suo cedere a quest’esistere nel Limite, continuo eppure continuamente superato, ed era precisamente quanto più m’interessava di lei e, insieme, mi respingeva, come di solito respingono e attraggono le cose che sappiamo di non poter imparare. Anche di questo non abbiamo parlato, Rita ed io, mai.
Ora però non ho più voglia di scriverne. C’è un tale fuoco fuori, un tale blu.