Altra-insonnia.1

Ore e ore a fumare e tessere un silenzio che scioglieva ogni svolta inattesa verso racconti che non avremmo certo immaginato di fare. S’avviluppavano alle voci dell’imbrunire appena appena autunnale, a tratti fioche, a tratti ancora troppo vivaci. Così il crepuscolo s’è lasciato allungare e senza sogni sino a quello successivo, col mondo che schiariva il piccolo terrazzo infreddolito d’un ultimo alloggio, all’ultimo livello d’un edificio indecifrabile, tra palazzi di pochi piani in un quartiere che a intermittenza era stato un poco anche il mio, nei giorni addietro. È difficile che io provi simpatia per Bologna. È successo solo qualche volta, in inconsueti frangenti che non riportassero a un’idea anche vaga di mischiamento delle committenze (le mie commissioni) coi bei volteggi dell’aria sotto i portici, con i tratti brevissimi di pioggia, le scivolate sul marmo, certi punti di caldo diretto dai mattoni agli occhi, gli appuntamenti mancati mai, il gelato da Gianni, l’intenzione a sparire, e poi quei silenzi resistenti, miei, contro tutti. Per esempio, è successo stavolta. Neppure s’è ripresentato l’amato Compianto sul Cristo Morto a sfocarmi le traiettorie, e nessun corpo mi premeva su le spalle. Avevo invece un che di leggero da andare pensando.

Le sue ossa non hanno oramai alcuna sfrontatezza, ed io posso vedere quasi ogni filosofico giunto che le tiene mirabilmente insieme. Zero secchezza la pelle, e le parole gli sgorgano senza alcuna pretesa di venire bene. Non recriminano più, non condannano il mondo,  non disperano. Accarezzano, principalmente: tutte le cose. E finalmente lontana io leggo, fuor di scopo e oltre il bianco il nero le sfumature, perdendo la punteggiatura e pure la rete, quindi tutte, tutte le fotografie di quando non l’ho riconosciuto, poi di chi non poserà, mai più, come una testa da coiffeur.