Sogno.5

 

C’era un uomo di ferro che, senza testa, ti sbranava con le mani e da lì inghiottiva, come fossero fauci – poi, quando la testa è comparsa, era proprio la tua. C’era sangue, che certi momenti era vino, veniva come pioggia dal cielo, copiosa, densa, rumorosa. C’eri tu che non ti difendevi e c’erano paternali feroci da destra e da sinistra. Poi c’era il tempo che non scorreva se non attorno, cioè fuori, dove il tutto si copriva di putride coltri e, senza neanche uno spasimo, s’ammalava, forse moriva, in ogni caso diveniva, nella calma, silenziosamente. Era lì dentro, dov’eri tu, che tutto invece restava uguale, efferato e dolente, vischioso, gonfio di pena, mentre io riuscivo a stare ora qua, ora là. Dentro e fuori, facevo. Dentro, sentivo un male atroce e tutto quanto riuscivo a fare, oltre a contorcermi per prendere meglio il dolore, era dire cose insensate – A ME NON PIACE IL PINOT NOIR: questo ripetevo spesso, che neppure è vero. Fuori, stavo al suolo, caduta, ero un pezzo di rassegnazione universale, non sentivo più, niente, vedevo poco, non parlavo. Però, qui duravo giusto quel tanto utile a prendere fiato, pensare un modo per far smettere quelle dita che come uncini avrei risentito dopo poco strappare carne da sotto il costato, dai fianchi e dalla pancia i quali, ad un punto, si sono rivelati i miei. È d’improvviso che mi ritrovo dentro a un passaggio di treno. È un viaggio mai fatto, ché dal finestrino attraverso il mondo senza riconoscerlo. Riconosco niente, a parte un odore, che potrebbe venire da fuori ma forse è dentro e che, comunque, è di certo sangue.