Il crepuscolo stamani è durato un batter di ciglia. Con gli occhi incollati al vetro della finestra, lei seguiva il cielo schiarire, col blu che si faceva intenso, e di più. Ma s’era allontanata giusto il momento di prendere qualcosa da mettersi addosso che tutto s’era fatto d’improvviso chiaro. Quando è tornata, a guardare fuori, dalla cucina d’un appartamento per lei insignificante su un terzo piano di condominio in una cittadina che non le piace, con vista diretta sul pisciatoio dei cani del quartiere, era già finito tutto. Tuttavia, molte cose ancora lo raccontavano, il blu. Preservavano quasi intero l’incanto.
VIVREI ATTRAVERSANDO CREPUSCOLI, SOLO DI QUESTO. PERÒ PIÙ PIANO DI COSÌ pensò. Poi considerò che la notte era stata vana – s’era svegliata già stanca – mentre osservava il caffè venir su dalla piccola moka, il primo dei sei o sette che avrebbe preso anche in questo giorno in cui forse invece avrebbe dovuto starsene a dormire. In ogni caso, il tempo sarebbe scorso liscio, sentiva, cioè senza particolari turbamenti, che era quanto le interessava, dato l’alto tenore di struggimento da incontri inattesi e altrui narrazioni che le stava appestando il periodo – e doveva essere la fase della concentrazione estrema, questa: solo lavoro.
Ieri, per esempio, aveva lasciato l’ufficio prima del solito con l’intenzione di mettersi a lavorare più concentrata, una volta a casa. Tornando, aveva optato per un percorso insolito, che s’intricava in ambigui incroci, svolte che confondono e piccoli slarghi tra palazzine gran-decoro macchine parcheggiate e ragazzini che tornano da scuola in coppia, alcuni accompagnati da un adulto e, comunque, ben al riparo dai grupponi turistici traballanti di gente ordinata che segue un ombrello o una bandierina o una figura in qualche modo vistosa, avvinghiandosi senza riguardo al tuo collo, se ci capiti in mezzo, per lasciarti poi tramortita e senza respiro.
A proposito di respiro, l’altro giorno fece un acquisto curioso. S’era lasciata sedurre da tavolate smisurate di Tillandsia, esposte a seconda della varietà: una gran copia per ogni tipo, sì da formare vaste differenti mini-lande, tra loro tuttavia simili, una di seguito all’altra. Erano pianeti di tentacoli verdi i quali, elevandosi dal piano su cui poggiavano i corpi centrali del tutto privi di radici, sembravano abbarbicarsi all’aria, momento dopo momento, in una staticità che era solo parvenza, palesemente. La Tillandsia vive d’aria: aveva trovato finalmente qualcosa che poteva incarnare il suo ideale esistenziale. SÌ, le aveva detto il venditore accendendosi, QUESTE PIANTE ASSORBONO NUTRIMENTO DALL’ATMOSFERA: UMIDITÀ, RUGIADA, NEBBIA. Dietro al venditore s’era accesa anche lei: VIVERE D’ARIA andò pensando per la restante parte di quella Domenica d’un ottobre caldissimo, esagerato. ECCO COSA DOVREMMO FARE IN QUESTO VIAGGIO QUA, ed era la prima volta che tradiva a se stessa l’idea dell’esistenza come viaggio, subito pentendosene.
Il punto, per lei, è essere sempre così confusa: sull’esistere, su ciò che le pare esso sia, su come vorrebbe che fosse. Il suo guaio è essere contraddittoria e tuttavia coerente, con la voce squillante e con la voce che è un filo, vestita di nero, di rosa e di azzurro, poi con l’ambra e il pallore sul volto. Potrebbe cedere alla distruzione da un momento all’altro eppure sentirsi come dentro un atto di creazione, ancora verticale ma finalmente leggera, col cielo sugli occhi per il collo piegato all’indietro, pensando soltanto: EVVIVA, OGGI NON HO DOLORE, piena d’attrazione e repulsione per la vita e per la morte insieme, quasi come coincidessero.
Ieri, allora, scivolando lungo facciate di palazzi ben assemblati in anfratti residenziali che le erano ancora sconosciuti, dove non ci sono uffici o negozi ma solo abitazioni, e cercando di desumere il reddito medio dei residenti dalle macchine parcheggiate nei posti erre, si perse. Rincasò che già faceva scuro, dopo più di due ore – contro i minuti quindici che avrebbe dovuto impiegarci. Era incappata nel pianto struggente, misto a frasi incomprensibili, d’una bambina, o un bambino, che avanzava. Dopo poco la voce aveva smesso d’avvicinarsi e un’altra s’era sovrapposta. Era d’una donna, che tentava di dire cose imperative abbassando forzosamente il volume e producendo perciò suoni che sembravano frustate. Ne derivava un tale effetto di amplificazione dell’isteria percepita, favorito dall’acustica curiosa di quello spazio, che se ne restava turbati parecchio, in profondità. A tratti, era persino raccapricciante. Faceva: SMETTILA – HO DETTO DI SMETTERLA – SMETTILA, HO DETTO – LA SMETTI O NO, CRETINA, LA SMETTI O NO – HO DETTO CHE DEVI SMETTERLA, OCA, SEI UN’OCA – FINISCILA, BASTA HO DETTO, SMETTILA e così via.
CAPRICCI IN CORSO, aveva pensato. Le due voci stavano appena dietro l’angolo, si capiva, e lei, poiché non voleva averne svelati i volti, s’era fermata un momento, valutando se non fosse il caso di tornare indietro, cioè cambiare strada. Proseguì, invece, lentissima. A un punto, cominciò a distinguere anche le parole dette nel pianto: NON DEVI DIRE QUESTE COSE DI MIO PADRE, NON TI VOGLIO SENTIRE, faceva la vocina, NON VOGLIO SENTIRLE QUESTE COSE, dopodiché i loro sguardi s’incrociarono per un istante. Così la donna adulta riprese a camminare, tacendo, mentre la piccola – poteva avere dieci anni, undici al massimo – tirò su col naso, frenò il pianto e, dandosi un’aria di pacata ragionevolezza, disse: NON È CHE ADESSO, PERCHÉ VI STATE SEPARANDO, PUOI DIRMI CATTIVERIE SU MIO PADRE TUTTO IL TEMPO.
Passando oltre, lei guardò dritto, davanti a sé, apparendo impassibile, anzi, probabilmente si fece invisibile. In realtà, provò un fastidio tremendo, specie per la frase della bambina. Le sembrò d’averla già sentita, più d’una volta e più o meno identica. La suppose parte d’una retorica diffusa, amplificata, oramai inutile, e noiosa. CERTO CHE DEVE PARLARTI MALE DI TUO PADRE, INVECE disse tra sé e sé, NON È TROPPO PRESTO PER IMPARARE IL DISAMORE, TI SERVIRÀ. Quindi le si agitò tutto un mondo, dentro, nell’intreccio di vite tutte sue attraverso le quali era giunta tra quei vicoli di ciottoli incastonati dentro a passaggi sempre troppo fugaci di fragilissime, umane esistenze. E non ne era contenta, affatto.
Cercando un briciolo di disamore che l’avesse davvero toccata almeno una volta, tornò indietro di anni, di decenni, e vagò, arrivando a sera con quel senso di fortuna, o di disgrazia scampata, ma anche col vago sapore d’un prezzo altissimo da scontare, per sempre, sì, perché mica ne aveva avuto di disamore, lei. A casa trovò la luna già in mostra attraverso la finestra che dava a ovest, poi gli avanzi della cena del giorno prima, in cucina. Ascoltò per un po’ quelli del piano di sopra che parlottavano dicendo della Serena e di Roberto, di come non fosse giusto non farsi più sentire. Valutò che stava ingrassando, e che c’era proprio niente del viaggio, in tutto questo. Non lavorò.
Neanche ha pensato per davvero di doverlo fare, lavorare, almeno non fino a stamani quando, prima ancora di recuperare la mantiglia, ha aperto il computer ed è stata assalita dalla sensazione d’aver avuto numerosi sogni e corse, nel breve sonno. Perciò, se non fosse stato per le irrinunciabili evoluzioni del blu, avrebbe chiuso gli occhi lungamente restando immobile a convincersi di aver già dato e che anche solo respirare era abbastanza per oggi, e magari per sempre: vivere d’aria, insomma, come la piccola Tillandsia portata a casa l’altro giorno, che però sta già morendo, da come sembra.