Notte di freddo (e odori)

Non c’era più un paio d’occhi disposti all’attenzione tra un fiore colto e l’altro, e non importa quanto lungo fosse il tempo in mezzo. Quella notte di freddo, con te che non avevi sguardi, d’un tratto mi sembrò di tornare dentro un’ora segreta, in mezzo alla nuvola ostile dell’odore di pellame, nella stanza con mia madre mentre mettevamo insieme i due pezzi d’ogni tomaia di mocassino.
Lavoravamo quando la casa si faceva vuota, ogni giorno per un mese e più, fino a farne centocinquanta, di paia, duecento se veniva ad aiutarci la nonna. E allora sì che avevano senso i soldi, se arrivavano sufficienti per l’ultima bolletta rimasta e prima che ce ne fossero di nuove.
Lei si faceva lasciare il nostro totale di scarpe a casa di Filomena. Andavamo a prenderne poche per volta, due piccoli sacchi, e poche per volta portavamo a Filomena quelle fatte, perché nessuno doveva sapere. O, più esattamente, lei assolutamente non voleva sapere che altri sapevano: come se in tal modo potessimo garantirci che mio padre non sarebbe venuto a conoscenza di quel che facevamo, ché non l’aggradava. Ed era l’aspetto più penoso, questo, il più difficile da ridare a una qualche logica infantile. Per il resto, a parte l’odore, tutto bene. Avevo imparato anch’io a lavorare come si deve, dopo poco, e com’ero diventata veloce. Il difficile stava nello stringere bene ogni punto e, a ogni punto, io tiravo su il filo con un colpo secco, come uno strappo, fortissimo.
Però, ricordo zero di come si componessero i punti, non ne saprei rifare ora, di nessun tipo. In verità, a volte mi pare d’aver dimenticato tutto di quel nero lavoro di mia madre e di me aiutante, tutto davvero, se non fosse per quell’odore pungente quando torna e rifà qua e là qualche lampo all’indietro. E come esagera, poi, come s’allunga. Lo sento andare molto oltre la mia fine ignota e vicinissima. Con esso, pochi preziosi altri – alcuni buoni, alcuni cattivi. Talvolta tornano tutti insieme, ma non sovente.
Per esempio, avvenne più tardi poi quella notte che tu avevi perso anche l’ultimo sguardo che può liberare, o trattenere, o aspettare. Strano effetto, tutto: non c’era una mancanza a respirarmi e neppure un suono narrante, non il solito battito qui nel polso, una pur lieve carezza e, un minimo, il sorridersi. Ma anche questo: già sembra di qualche vita fa.

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