Novembre. Sandro.

Non era accaduto da molto – non più di una settimana, cinque giorni o, al massimo, sei – che andando a casa a questa stessa ora, cioè le sei e trenta circa della sera, aveva visto l’ambulanza accostata davanti alla villetta di Marcello. Dopo almeno un decennio di inquietante immobilità, l’uscio rivelava una qualche attività vitale; s’era finalmente rianimato, come quando i figli ancora abitavano lì ed era tutto un viavai di amici e amiche giovani belli e un poco irrequieti.
Sandro di certo non si fece domande sull’ambulanza, non era suo costume voler sapere, infilare il naso negli affari degli altri. Aveva solo sperato che niente d’irrimediabile stesse capitando. E aveva affrettato il passo.
Era una di quelle sere, esattamente come questa, che l’imbrunire ti porta l’umido fin dentro le tasche del giubbotto, tanto che ti senti costretto a tirarne fuori le mani, arrendendoti a una voglia feroce d’arrivare sotto un tetto che sia il tuo, cioè tra le cose dei tuoi affetti stratificati, le loro indiscutibili conferme, poi le faccende differibili, di fatto differendole quasi sempre, per stenderti e scaldarti. Perché novembre, quando ci cammini dentro frettoloso e goffo nel tuo infagottamento prematuro ed esagerato, ti fa sudare, e sudare per poi d’improvviso fregarti col suo freddo irrespingibile, ché già è calata la sera, fin sulla faccia, con sferzate d’aria gelida giù per il collo e sotto la canottiera. É che sei ben coperto, sì, ma non ancora davvero attrezzato. Anzi, ti manca tutto, si potrebbe dire, perché non ci hai ancora rifatto l’abitudine, al freddo. Quella volta non se n’era vista traccia, di Marcello. L’ha rincontrato soltanto stasera.
Cercando di attraversare il suo trascurato giardino, Marcello armeggiava col carrellino della spesa: sembrava ci fosse una ruota inceppata. Tentava di sbloccarla, ma il carrello era carico. Pesava. Nell’impaccio del suo mezzobusto largo e rigido alquanto, Sandro aveva buttato l’occhio verso la casetta mentre percorreva in rapidità il marciapiede, scorrendo lungo il recinto, e guadagnava metri verso il cancello del suo palazzo: il quinto edificio della terza traversa a destra dopo la fermata del tram sul finire del vialone alberato che, se lo segui per altri quattro chilometri e mezzo, in direzione Sud, ti porta direttamente al multisala, uno dei primi a essere stato costruito in regione, attivo tutt’ora, ma che sarebbe stato da dismettere sin da subito.
Quello a tre piani, in mezzo a due da quattro, è il suo condominio. É ricoperto di graffiato verdino, con le tapparelle scolorite, un tempo marrone testa di moro, e senza poggioli: un po’ malmesso, insomma – come gli era capitato di descriverlo le poche volte che aveva dovuto indicare a qualcuno come raggiungerlo, non senza vergognarsene un po’, lui che da giovane, se pure per un periodo brevissimo, coltivò il desiderio di diventare architetto.
BUONASERA MARCELLO – glielo aveva buttato lì al volo un saluto, senza una coloritura particolare nella voce, né un qualche moto che dall’animo s’inscrivesse in una piega della bocca, tra le rughe attorno agli occhi, o sotto una variazione posturale appena  appena percettibile. Niente. Non che non gli suscitasse qualcosa, vederlo. Anzi, gli aveva subito scatenato considerazioni importanti.
Giusto la sera prima, facendo lo stesso tragitto e sempre a quest’ora, gli venne di domandarsi come mai non s’era più visto, che fine avesse fatto. E si ricordò dell’ambulanza. Incontrarlo, ora, lo faceva sentire come sollevato. Pareva avere un bell’aspetto, che fosse anche più in forma del solito: avrebbe potuto dirglielo, esprimendo rallegramenti. Lo aveva a portata di voce e, poi, cose così non si tacciono agli amici. Però, erano davvero amici lui e Marcello? Si conoscevano da un trentennio, o quasi, ma cos’è che avevano mai fatto insieme, oltre a due parole? E che pensieri s’erano scambiati, oltre a considerazioni su il caro vita, l’amministrazione comunale e i nuovi vicini che via via andavano cambiando la umana fisionomia del quartiere? Su questo ci sarebbe stato parecchio da riflettere, ma lui, adesso, non aveva proprio palle per pensieri troppo seri.
A ogni modo, meglio non essersi fermato con Marcello. Si sentiva così stanco, e anche già arrivato, tutto proteso in avanti com’era, con la chiave in mano, quasi la stesse già infilando nella toppa del portone condominiale: alluminio anodizzato, di cui nessuno si sognava di proporre la sostituzione, e forse proprio perché era talmente brutto da starci da dio, tra squallore e squallore. Quel portoncino era il cuscino perfetto per lo squallore di dentro e lo squallore di fuori – l’atrio marmoreo tutto annerito e la strada, troppo buia e morta di notte, sempre in penombra e malfrequentata di giorno. A questo si riferiva, Sandro. In quella sensazione di bruttezza non era in alcun modo implicata casa sua: il midi di tre locali che stava pagando ancora, da una vita.
L’aveva scelta soprattutto per il bagno: finestrato e con grande vasca, e le pareti curiosamente rivestite di sughero semi-grezzo. Presto, però, imparò ad amarne ogni cosa: quel discreto tepore dovuto al fatto di essere in mezzo ad altri appartamenti, la gaiezza conferita agli ambienti dal terrazzo alla veneziana della pavimentazione, la felice disposizione delle librerie nel soggiorno, da sempre sovraccariche e che, certe sere, gli parlavano fino a far confusione come di amici veri e numerosi, ritrovatisi per una festa. Era particolarmente legato, poi, alla piccola collezione di minerali nella vetrinetta che era stata della casa di sua madre, come pure le marine alle pareti, mezze impressioniste e mezze naïves, incorniciate baroccamente d’oro. Gli piacevano molto anche la forchetta il cucchiaio e il coltello fissi nello scolaposate, nel cucinino, pronti all’uso, così come la mini pignatta sul fornello, con l’acqua dentro, in attesa sempre di un fuoco. Aveva sviluppato legami quasi morbosi con la sua casa. Era diventato dipendente persino dall’idea che avrebbe dovuto andare in cerca del telecomando del televisore, una volta rientrato, aspettandosi di scovarlo – e immancabilmente accadeva – tra i cuscinetti rosso bordeaux  sul divano. La cosa più bella di tutte, però, era che ogni sera ritrovava Teresa, a chiedergli quel tanto d’attenzione.
Teresa era il nome dato al vaso di Tradescantia fatto su da una piccola talea rubata in una fioreria quella volta che, incaricato dagli altri dell’ufficio, era andato a comprar fiori per una collega, Teresa, appunto. Era stato facile. Del resto, un altro nome per la Tradescantia è Miseria, proprio perché cresce con niente.  Lui la conosceva bene, dato che l’aveva avuta in casa anche sua madre, per lungo tempo. E ormai erano più di quindici anni che da sopra l’orrendo parallelepipedo bianco del frigo penzolava di lasche e lunghe ramificazioni a foglie screziate, qualche volta persino fiorendo – piccolissimi e bianchi, i fiori. Sta dunque per tornare a tutto questo anche stasera e con tutto questo non c’entra molto quel povero vecchio cristo di Marcello, orso più di lui e così sgradevole d’aspetto, col suo riporto unto, il naso adunco e gli enormi lobi auricolari, quel corpo asciutto, anzi ossuto, che gli aveva sempre fatto un po’ specie.
Si trova sotto casa finalmente, sospeso dentro una parentesi inverosimile nella quale l’intorno s’è fatto deserto. Non un mezzo in strada, non una voce, un suono minimo – e ogni volta è esattamente così il momento che precede l’attraversamento del portone del palazzo. CHI LO SA QUANDO MAI POTRÒ CAMBIARE VITA, SE DAVVERO DEVO ASPETTARE FINO ALLA PENSIONE, sospira, non appena la chiave fa fare CLICK alla serratura e il tanfo di muffa scivola fuori tutto quanto dal minimo spiraglio che s’è creato.
Rimane immobile per qualche attimo lunghissimo, come se improvvisamente non avesse più voglia di rincasare. Lo assale il bisogno tremendo di prender tempo, per rimetterne a fuoco il senso, reincastrare le attese alle necessità, allontanare l’indomani e bloccare per sempre quell’interminabile processo di demotivazione al vivere che era diventato il suo lavoro. Per dilatare, invece, la notte.
Accende già la luce, nel pensiero, quella sulla scrivania, mentre il sacchetto del macellaio, penzolante giù dall’avambraccio destro, urta il vetro del portone e gli ricorda che dentro ci sono piccoli tranci di polmone e fegato e qualche tratto di trachea da far lessi per suoi gatti. Suoi: nel senso che se ne sente responsabile, sebbene non irreversibilmente. Sono cinque gatti, tre maschi e due femmine, più o meno giovani e in buona salute, arrivati in momenti diversi presso il cortile, sul retro del palazzo, tutti da se stessi o, al limite, condotti da chissà chi. Mai che se ne sia portato qualcuno lui. Tutto è casuale e un po’ magico ciò che prende significativamente parte all’esistere di Sandro. O, almeno, così gli piace immaginarlo.
I progetti fatti negli anni, del resto, sono serviti a niente. Non si sono affatto avvicinati a una realizzazione, neanche parziale. E, certo, si è sempre trattato di ben altro che quest’eterno pendolare tra casa, fermata del tram, stazione dei treni, fermata del bus, ufficio e poi, ancora, fermata del bus, stazione dei treni, fermata del tram, casa. Era ben diversa la vita, nei programmi di Sandro. Poi è stato anche bravo, lui, a esorcizzare la routine: con cento diverse storie – perlopiù donne – e con così tanti pianibbì che a un punto ha smesso di tenerne il conto. S’è ogni volta ingannato, va bene, e sovente ha anche ingannato, sì, ma nessun senso di colpa. Spesso, anzi, s’è ritrovato a compiacersene.
Anche ora si compiace, ripensando al suo spirito avventuroso a dispetto di tutto, mentre le consuete fitte al petto del sessantottesimo gradino, che ogni volta gli fanno inclinare il busto a sinistra, caricandone il peso sul corrimano di faggio lucido tramite l’avambraccio impestato d’artrosi, stavolta invece lo spingono giù. Si accascia sui gradini e, più freneticamente che mai, prende a valutare che ne servirebbe un altro, di piano B. Magari sarebbe l’ultimo, okay, ma deve imbastirlo in fretta. Adesso.

 

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