Come ingoia le distanze, sto buio. Ore venti e diciotto. Da qui non vedo luce là fuori, che apra una porta, su una pur minima stanza. Chissà l’aria, com’è. Forse le resta quel nonsoché d’improvviso e anticipatorio, leggero eppure furioso, che oggi incastrava i sensi coi sensi. Per tutto il tempo al vento, il cappotto aperto, dal petto ho sgranato petali innumeri, celebrando Noncuranza. Santa.
Suonarono al campanello del mio sonno come dalla gola d’un gufo che moriva, l’altra notte – era fonda. Non mossi un nervo dal mio guscio di torpore: il gelo immaginato tutto quanto esterno, e noi al riparo. Avranno bisogno, pensai. Fosse importante, risuonerebbero.
Quel tanto che pulsava, ebbro, io leggera, quel nonsoché di primavera, ha tutto il giorno continuato a spingermi e a spingermi all’indietro, anziché nel dopo. È gennaio. È stato marzo – più d’una volta. È il tempo dei patti, dei gran florilegi di non detti, che, come sempre, ci coprono le voci. Gonfiano il buio, sganciando lontananze, sospingono varco contro varco e mischiano le sorti, passando oltre ogni porta – a che serve la luce..
Avessi bisogno, risuonerei.
affascinante
nulla da aggiungere o da sottrarre: tutto qui
il piacere di rileggerti 🙂
ml