Febbraio. Calicanto

Le si riusciva a spremere come arance, le questioni, allorché si decideva di affrontarle. Esse si lasciavano sviscerare per bene, e arrivavano a svelare buona parte delle proprie facce. Talvolta, servivano giorni, settimane. Altre volte bastava qualche ora. Talvolta, tutto si svolgeva con pacatezza. Altre volte, era come lo stagliarsi furioso d’un raggio di luce su un universo di cose il quale perdeva, così, forma e struttura. In ogni caso, alla fine ne veniva sempre un certo benessere, in parte conosciuto, in parte assai nuovo. Questo aveva detto a Roberto, con grande compiacimento, davanti al terzo caffè della mattina, al bar. Chissà allora perché tendevano a rifuggirle, le discussioni, lui e lei. Ogni volta, la prima scelta era il tacere; s’attribuiva un’eloquenza esagerata agli sguardi, ai gesti. In quei due anni e rotti, avevano innalzato silenzi così numerosi, lunghi e gravidi di incertezza, e di ambiguità del sentire, e di sensi di colpa per l’ambiguità, che la conseguente pericolosa, intima confusione costituiva ormai la normalità, per loro.
Avevano saltato il pranzo. Lei, perché era indietro con il lavoro; neppure era riuscita a scendere al bar sotto l’ufficio per prendersi qualcosa. Lui, perché ogni tanto si metteva a praticare una qualche forma di astinenza. Avrebbero perciò cenato presto, appena calato il buio. C’era l’inverno ancora, il mondo fuori era scuro e opaco, tranne che per un pezzo del recinto di casa, spruzzato di luce giallina, delicata e duratura, emessa dai fiori sui rami nudi del calicanto. Ce n’erano tre grossi cespugli, alti, fitti, tutti sul lato Est dell’edificio. L’aiuola, al di qua, e il marciapiede, al di là, mettevano un poco a distanza la stradina senza uscita utile a un gruppo arretrato di costruzioni, tanto più rade quanto più ci si allontanava dalla via larga. Su questa, la loro casa esponeva il lato Sud, quello della zona giorno dei due appartamenti sovrapposti, e dei terrazzi. Era stato mentre fumava lì fuori, una notte insonne del mese prima, che una folata di odore buono e sconosciuto l’aveva sorpresa dentro le consuete acrobazie tra tentati svuotamenti della testa e paralizzanti accelerazioni del battito. Così, seppe che quei fiori avevano profumo.
Erano i soli cespugli di calicanto della zona. Non ne incontravi altri per tre isolati sicuri, e magari anche oltre. Peccato, non si vedevano proprio, dalla finestra del salotto. Si scansò con la mano i capelli dal viso, quindi appoggiò la punta del naso sul vetro, che non era poi neppure tanto freddo, come invece s’aspettava. Lui badava al soffritto di cipolla, mentre implorava al gatto di togliersi dai piedi, cercava di accendere mozziconi di cera nel portacandele a tre bracci di vetro color ambra, soffiato, tagliava a fette grosse il pane vecchio da abbrustolire sulla piastra di ghisa, toglieva il rosa all’aglio, sminuzzava il prezzemolo, mettendo gli utensili in lavastoviglie man mano che li adoperava. Di tanto in tanto, canticchiava mezze sillabe sul motivetto dello spot pubblicitario di turno – la tv era accesa a volume bassissimo. Soltanto raramente buttava l’occhio alle notifiche del cellulare. Quale poteva mai essere il posto delle parole, in tutto questo? Le dici oggi e stanotte già non valgono più, per quanto abbiano lasciato segni su quel nervo vivo che lega le ossa al domani e ti porta dentro all’essenziale, a traballare e a resistere incerto e caparbio: cose così andava pensando, lui.  Tra sé e sé, aveva aperto una vera riflessione: a partire sostanzialmente dal fatto che in due ore di compresenza, da quando lei era rientrata dal lavoro, s’erano detti quasi niente.
NON CI ANDIAMO, ALLORA, AL CONCERTO? gli chiese a un tratto pensando a maggio e al non avere ancora comprato i biglietti. L’operazione, infatti, era stata rimandata a feste finite, dapprima. Poi, l’avevano posticipata a quando i giorni della merla si sarebbero chiusi sul torpore organizzativo che appesta l’inverno, cioè quando oramai sai che il freddo non durerà ancora per molto ed è un poco tornata la voglia di fare. Insomma, era passato quasi un anno da che avevano saputo del concerto, e ancora non avevano i biglietti.

Aveva tentato ancora una sera della settimana prima. Pur con un significativo grado di distrazione, lui stava leggendo gli scritti dei suoi studenti. Seguiva nel contempo Youtube che mandava in continuo video musicali, muti. A intervalli di otto, dieci minuti al massimo, riversava totalmente la sua attenzione sul monitor del portatile, per lunghi momenti. Per questo lei non aveva considerato di poter essergli di disturbo. ABBIAMO DECISO DI NO? insisté.
NON ABBIAMO DECISO ANCORA, MI PARE.
E QUINDI VOGLIAMO DECIDERE? PRIMA CHE SIA SOLD OUT, con una vena implorante nella voce. Ci teneva ad andare, e non per l’artista, che neppure si collocava tra i suoi primi tre – e però era il primo assoluto tra i preferiti di lui. Erano passati sette anni dall’ultimo concerto al quale aveva preso parte e le mancava molto quella trasfusione di energia, tipica della dimensione live, che ti immette in un traparentesi specialissimo,  dove vivere coincide con l’estremo approssimarsi reciproco di sensi e cervello. Poiché non riceveva risposta, richiamò nuovamente la sua attenzione, minacciando di comprare soltanto un biglietto: sarebbe andata anche da sola.
MA PROPRIO ADESSO DOBBIAMO DECIDERLA, STA COSA QUA? fece, senza staccare gli occhi dal video.
PROPRIO. SÌ. ANZI, GUARDA, IO HO DECISO.
Il rossore le era salito alle gote come nei suoi momenti migliori, e arroventava una sezione significativa dello spazio attorno. Più ampio ancora era il raggio di luce che ne veniva. Aveva inondato tutto, e non a poco a poco, ma all’improvviso, come si fossero di colpo spalancate persiane a mezzogiorno mentre tu, nella stanza, credevi mancasse ancora parecchio al farsi chiaro. L’aria fu pregna di quel nonsoché di tremendo tra resistenza e resa – la resistenza al mondo, la resa a sé; tutto era minaccioso e induceva a mettere via ogni occupazione per arruolare risorse nell’incipiente battaglia.
È FEBBRAIO, le sorrise, spostando la bottiglia dell’acqua dalla linea indispensabile allo sguardo per raggiungere dritto quelle gote accese, HAI RAGIONE, SI RISCHIA DI NON TROVAR PIÙ POSTO. Però, disse anche che forse era davvero il caso di acquistarne uno solo, provando poi a vedere se si trovava qualcuno a cui aggregarsi. È FEBBRAIO, rifece, E I SOLDI DEL CORSO CHE HO TENUTO L’ANNO SCORSO NON SONO ANCORA ARRIVATI. Il conto in banca sarebbe andato presto pesantemente in rosso, al vicino saldo della carta, e non poteva chiedere ancora prestiti ai suoi, almeno non per un concerto. Se mai avesse avuto l’ammontare necessario, comunque, l’avrebbe più volentieri impiegato per una cena con gli amici, perché era diventato sempre più difficile dir loro di no. L’ALTRA SERA, ERA IL COMPLEANNO DI ROB, le spiegò, MI SONO INVENTATO CHE AVEVAMO GENTE A CASA.
Si sentì mortificata, perché veniva a saperlo soltanto adesso, e perché non aveva preso in carico quest’aspetto già da sé, un poco anche perché lo stava inducendo ad affrontare un tema che, si capiva, gli era doloroso.  Se i soldi, infatti, costituivano la sostanza banale della questione, c’era un livello più profondo, che tornava spesso e aveva un nome preciso. Si trattava di ciò che è comunemente detto precarietà lavorativa, ma che in realtà altro non è che INDIGENZA, secondo lui. SEI UN PRECARIO PERCHÈ SEI POVERO, sosteneva senza trovare mai abbastanza accordo attorno a sé, NON SEI POVERO PERCHÉ SEI PRECARIO. SE HAI UNA QUALCHE RENDITA, CHE PROBLEMA C’É A LAVORARE SOLAMENTE OGNI TANTO? Fu come riprendere un discorso già fatto, dal punto preciso in cui l’ennesima reiterazione era stata interrotta per noia. E fu l’avvistamento improvviso di un delicatissimo fiore rosa tra i fili dell’erba proprio mentre il tuo scarpone grosso e nero pur senza intenzione lo pesta, scaricandoci sopra tutto il tuo peso, la stanchezza e la rabbia. Ancora, fu come se un estraneo ti si spogliasse davanti – per lei. E, per lui, fu ricevere un amico nella soffitta dove abiti, sapendo che questi non poteva immaginarsi altro che un attico esclusivo, come tua dimora. Fu penoso, finché l’argomento indigenza non cadde. E cadde perché lui, avendo parlato quasi tutto il tempo, si sentì esausto. Così tornò alla sua pila di prove d’esame, mentre lei iniziò a leggere un libretto a caso, solo per paura di apparirgli superficiale provando di nuovo a parlare del concerto. Rifecero silenzio, e fu come rimettersi a rovistare a mani nude dentro un tumulo di foglie secche in cerca di un forcone.

Stavolta, era molto determinata. CI SONO ANCORA POSTI, disse, HO VERIFICATO. FACCIAMO L’ACQUISTO? S’era fatto già buio fondo. Le giornate stavano diventando sensibilmente più lunghe, ma oramai erano le diciotto e trenta. Avrebbe dovuto essere già pronta, la cena, a giudicare dagli odori distribuitisi nell’appartamento; sarebbe stato meglio tirar fuori l’argomento dopo mangiato, forse. Cosa sarebbe successo se lui, magari per non farle pesare troppo il rifiuto definitivo, l’avesse tirata dentro a uno dei suoi ragionamenti più o meno filosofici, arricchenti, forse, ma sempre così occultamente manipolatori? Quanto l’avrebbero tirata per le lunghe e che fine avrebbe fatto la cena? Il buio di certo non sarebbe stato d’aiuto, perché non è vero che il buio avvicina, oramai lei lo sapeva bene. Lo scuro rende ogni pur minima porzione di spazio un abisso insondabile. Nasconde la distanza, illude, senza affatto favorire il cercarsi reciproco di due sostanze, l’incontro. Ogni cosa resta isolata, e sconosciuta all’altra. Anche per questo l’ami, la notte, e ti sarebbe facile amare più o meno chiunque, nella notte. Con ogni probabilità, sarebbe stata di nuovo comprensiva, e condiscendente, persino. Considerò allora che poteva esserci salvezza, per così dire, se la dirigeva lei, la conversazione, senza mollare mai le redini, una volta che le avesse prese in mano. Quindi smise di esitare e, con il tono della voce straordinariamente alto, gli chiese di aiutarla a scegliere i posti.

ARRIVO, fece lui dalla cucina, CON CHI VAI ALLORA?
PAGO IO, LI HO I SOLDI PER DUE: VIENI TU.
NO, NON CAPISCI. GUARDA, NON POSSO VENIRCI, OKAY?
COSA VUOI DIRE?
IN QUESTO MOMENTO NO, DAVVERO. DAVVERO. NON POSSO ACCETTARE DI BUTTAR VIA SOLDI PER UN CONCERTO.
Non le cadde il mondo addosso. In fondo, se l’aspettava. L’ultima volta che ne avevano parlato s’era capito che non c’era intenzione. Solo, non aveva ancora lasciato andare la speranza che le facesse come un regalo, cioè che sentisse quanto le era fondamentale fare questa cosa e, perciò, gradisse condividerla. Era importante, sì. Al suo ultimo concerto, quello di sette anni prima nella amata città dei suoi studi, quella volta aveva dormito quasi per i due terzi del tempo. Non che non le piacesse, anzi. Forse era un poco stanca. Però, probabilmente fu più per il fatto di essere a proprio agio, tra gente che aveva in ogni caso qualcosa che le somigliava. Fu il sentirsi in una situazione che avrebbe voluto interminabile. Sì, probabilmente fu proprio lo star bene, a farla cedere al sonno. Le era capitato più di qualche volta, ai concerti. Quella sera calda di giugno era con degli amici: Franz, Sara, Mica. S’erano occupati loro dei biglietti, per l’esattezza Franz. Aveva scelto dei posti ottimi, si stava davvero bene. Inoltre, i pezzi di concerto ai quali era riuscita a prestare effettiva attenzione, si distinguevano ancora nella sua memoria per l’alone di perfezione che li accompagnava. Anche lei si sentiva perfetta quella sera, con i suoi jeans neri nuovissimi e la maglietta blu così aderente che le si potevano contare le costole. Ora, tutto questo le sembrava lontanissimo. L’esistere s’era fatto labirintico; ogni sforzo non era altro che un provare a indovinare e, poi, dietro l’angolo mica c’era la soluzione. Restava tutto da fare, di nuovo, sempre e ancora.  Sapeva che se non si fosse mossa per recuperare, almeno un minimo, quel nonsoché di leggerezza interiore, che un tempo le aveva reso possibile affrontare bene drammi più o meno neri, mai si sarebbe riscattata dall’invischiamento nel daffare e nel calcolo, nel senso di responsabilità per le scelte compiute, nell’accettazione del tradimento di un’immagine di sé che le era imprescindibile, poi nello sforzo di ammortizzare il risentimento di lui, lamentoso fino all’inverosimile, bisognoso com’era di riconoscimento sociale quasi fosse aria. A maggio, forse, grazie a quel concerto, avrebbe capito se ci riusciva ancora, a stare bene.
QUELLE PIANTE DI CALICANTO, LE AVETE SEMPRE AVUTE? domandò, gettando lo sguardo oltre i vetri.
L’IMPIANTÒ MIA NONNA, IL CALICANTO INVERNALE. COSÌ ALMENO MI È STATO RIFERITO. SAI CHE I NONNI MATERNI STAVANO NELL’APPARTAMENTO DOVE ORA STANNO I MIEI…
ME LO AVETE ACCENNATO PIÙ VOLTE, SÌ. NON AVEVO MAI VISTO IL CALICANTO PRIMA DI VENIRE QUI.
MAH, A ME NON DICE GRANCHÉ. CREDO CHE IN QUEGLI ANNI ANDASSE UN PO’ DI MODA.
SIAMO FORTUNATI A POTER ABITARE IN QUESTA CASA…
BEH, NON È IL MASSIMO!
PERCHÉ? A ME PIACE.
ESSERE TORNATO A CASA DA PAPÀ E MAMMA: QUESTO, NON É STATO IL MASSIMO. NON C’ERA ALTRA SCELTA, MA NON L’HO FATTO PER NIENTE A CUOR LEGGERO.
IMMAGINO, SÌ, MA… BEH, NON LO SO. QUANDO CI SIAMO CONOSCIUTI, ERI QUI DA UN PEZZO.
DA UN PEZZO, SÌ: QUATTRO ANNI E MEZZO.
APPUNTO.
INTENDI CHE MI SONO CULLATO SU…
NO, NO! SENTI, HAI PRESENTE QUEL DISCORSO CHE FAI SEMPRE SUL FATTO CHE NON È LA PRECARIETÀ IL PROBLEMA MA LA POVERTÀ? NON SONO DEL TUTTO D’ACCORDO, VOLEVO DIRTELO UNA VOLTA PER TUTTE, sorrise, mentre lui la guardava con attenzione esagerata. IL PROBLEMA È L’APPARIRE, continuò, INTENDO: L’IMMAGINE DI SÉ CHE SI DIFFONDE NEL MONDO ATTORNO, CHE NON É SOLO, BANALMENTE, QUELLO CHE PENSANO GLI ALTRI. CIOÈ, PRENDI IL MIO ESEMPIO. MI DÀ UN FASTIDIO TREMENDO CHE I MIEI AMICI PENSINO DI ME CHE SONO DIVENTATA UNA SENZA INTERESSI, UNA CHE NON SEGUE PIÙ LA MUSICA, CHE NON VA AL MUSEO, CHE NON SI MUOVE. CERTO, IO SONO EFFETTIVAMENTE COSÌ, ADESSO. SONO UNA CHE NON FA NIENTE DI TUTTO QUELLO CHE FACEVA PRIMA, MA È A CAUSA DELLE CIRCOSTANZE, NON PERCHÉ IO, DENTRO DI ME, SIA VERAMENTE COSÌ.
CAPISCO, SO COSA INTENDI fece lui tra il solenne delle palpebre socchiuse e, nella voce, una specie di intimità faticosa, acre.
NON MI PESA ESSERE PRECARIA, E NEANCHE IL FATTO CHE NON ABBIAMO UNA RISERVA DI DENARO SULLA QUALE POTER CONTARE NEI MOMENTI DI MAGRA. PERSINO, NON MI PESA NON FARE LE COSE CHE VORREI FARE: PERCHÉ IO CI CREDO CHE PRIMA O POI SI POTRÀ TORNARE A FARLE. IL PUNTO VERO È CHE, NEL FRATTEMPO, PER GLI ALTRI, IO FINIRÒ PER ESSERE DAVVERO UN’ALTRA PERSONA. GIÀ LO VEDO. DA ME NON SI ASPETTANO PIÙ QUEL CHE S’ASPETTAVANO UN PAIO D’ANNI FA.
CERTO, CHIARO. CHIARO, È COSÌ.
PRENDI IL LAVORARE, PER ESEMPIO…
Poiché lui s’era messo in atteggiamento di sospettosa attesa, irrigidendo il viso in una smorfia di autocensura, seguitò con enfasi ancora maggiore, portando a esempio un vecchio amico artista, i cui introiti legati alle opere erano sempre stati veramente esigui. La sua arte non era mai riuscita a dargli da mangiare, come si dice, e questo fatto, all’inizio segreto, a un certo punto si seppe. Tutti realizzarono quanto fosse impossibile che si sostentasse con due o tre performance l’anno fatte in teatrini di periferia.  Così, cominciarono a subissarlo di consigli su come trovare lavoro, su cosa avrebbe potuto fare. Addirittura, dopo una serata tra amici nella quale s’era lasciato un poco andare, fornendo inequivocabile conferma del suo stato, accadde che in soli tre giorni ricevesse una ventina di email con segnalazioni di siti di annunci di lavoro. Ciascuno dei convenuti gli scrisse, nessuno escluso. Più di qualcuno gli mandò ben oltre una mail; da un certo Marzio ne ricevette addirittura cinque, o sei. Eppure, tutti loro sapevano delle rosee condizioni economiche in cui tutto sommato versava, grazie alle sue origini, alla famiglia. IL LAVORO CI RISCATTA DA TUTTO, È COSÌ CHE VA, SPECIE IN CERTI AMBIENTI, fece, andando ad annusare sotto il coperchio di uno dei tegami sui quali lui era rimasto concentrato per buona parte del pomeriggio. Seguitò quindi col raccontare che proprio per questa ragione il suo amico artista a un certo punto fece sapere che stava lavorando a delle traduzioni: gliene avevano affidato in quantità, ne aveva per un anno  e, di sicuro, gliene sarebbero state commissionate altrettante l’anno dopo. Il compenso era mensile; non lo pagavano certo quanto avrebbe voluto, ma non erano assolutamente cifre da disprezzare. Tutto inventato. E la verità mica s’era poi diffusa, mai, tranne che nella cerchia dei cinque o sei intimi i quali, però, sapevano della macchinazione sin dall’inizio, ne erano in un certo senso complici.
E TUTTI VISSERO FELICI E CONTENTI?
ESATTO, rise lei. Il corpo di lui restò invece per intero congelato tra lo sprezzo che aveva irrorato la sua finta domanda e quello di tutte le obiezioni rimaste dietro i denti. Lei considerò che era stato davvero un bene discutere, sebbene non avesse terminato il discorso. Non era arrivata, infatti, a enunciare chiaro quale fosse a suo avviso il peso reale del lavoro, nell’esistenza di ciascuno. Comunque, era soddisfatta per il ruolo che aveva saputo prendersi nel dialogo. Ora considerò che c’era urgenza di capire come procacciarsi piante di calicanto per quando si sarebbe trasferita. NIENTE CONCERTO, VA BENE, sospirò. Dopodiché, il silenzio si riprese il posto, tra loro.

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