(quattro accapo)

Non abbiamo che un sorriso per stringerci all’invenzione clemente che ci fa sentire amati su un fronte altro da la solita lotta dei giorni e delle notti – multiple scene contro l’invisibile, concretezza contro visioni, incondivisibili. Hai gettato via le scuse nel gesto abbozzato. Pure tu in convenzione totale.

La fronte alta a bastanza, i pochi capelli, luce agli zigomi. Tra le labbra, fumo e vetro. Guardi per sempre più oltre, spingi il pedale srotolando la strada, ma sei il filo che non spezza l’origine. Lasci il segno pulito del disegnatore più scaltro. In arretrato di molto, stai su un copione tutto quanto già dato. Rido il dovuto.

Testimone di niente, nella camera svuotata dell’aria – la bici a terra – lei chiudeva le imposte dietro a grossi mattoni e avviava il motore. Sai quei tuoi messaggi ambigui come versi? Cancellati tutti e subito. Ogni volta dentro una differita terminale, con l’ossigeno in lingotti e gli stivali da togliere, ha passato e ripassato a fisarmonica il tempo, mentre si conficcavano nello sterno, i silenzi.  Adesso, reset.

Talora c’è, un gancio sincero per i molti che siamo. Non dura. Quella sera, ricordi? Figure improvvise uscite dal buio a marciare sul ciglio, ognuna il suo faro nel palmo, aperto, esposto, in fondo al braccio proteso. Lampi. Timore. Ti lagni, e di cosa – fu la loro domanda. L’inverno – dicesti.

T’uccide l’estate, lo sai.

 

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