Farsi scovare con una sorta di ghigno tra i denti dagli universali di questo sommario racconto di specie – qualcuno era pronto, sì. Pur tuttavia, restare spiazzati, cedere all’incomprensione – con capacità d’accogliere oramai tra il poco e il niente. Per giunta, senza più una frazione di spazio che valga quel tanto affinché noi si divenga meraviglia reciproca.
La distanza lascia cadere ancora sale dentro al taglio da te a me – da me a te. Eppure va bene, almeno finché a svuotarci le vene non verrà la dismisura tra ognuno e i tutti rimasti di fuori. E già sembra che quasi niente conti dell’Altro, se non ci assomiglia del tutto nell’incastro, desiderato e innato, con una biologia.
Ecco, nuovamente mi sento mancare, ed è un pomeriggio protetto, di campagna a una stesa di braccia, di sole e finestre spalancate, vitale nelle voci dei merli e dei galli, degli anziani vicini che fan rotolare commenti tra cortili e recinti, intanto che un ragazzino, rimbalzando il pallone tra il muro giallo e la gronda marrone, li ascolta. Discorrono intorno al poco di vario che c’è, sgranano stupori da sotto una campana monoposto mentre, però, per un inesorabile gioco di specchi, ognuno la guarda anche da fuori, la propria campana di vetro.
Quel che m’appare, a guardare anch’io la mia da un fatato punto all’esterno, è che avremo abbastanza altre formidabili notti di battito su battito, tuo, mio, mio, tuo, prima che uno scompaia per sempre assieme al proprio implacabile ricercare – la vita. Però intanto, anche così, vedi, anche qui, straripiamo in nuovi, santi bagliori: quando, per esempio, la luce ci s’addossa e la notte l’addolcisce, magnificando l’Umano ancora e, cioè, inventando altro amore.