Noi qui stiamo bene

Aveva sognato, nell’ora e mezza di sonno che anche stanotte i nervi gli avevano concesso. Non era stato un bel sognare, no. Comunque, ormai il sole era alto, la casa s’era stabilmente animata e il piccolo cortile offriva allo sguardo tutti e quattro i suoi posacenere, distribuiti tra i diversi angoli. Si stava bene.

Però, c’era un tale odore nell’aria che anche l’aperto-chiuso del cortile rischiava di farsi  respingente, nonostante il tepore irrinunciabile, e inatteso, dopo il vento freddo dei giorni prima. C’era stato anche nella notte quell’odore, a ripensarci, e forse persino più intenso. Non lo aveva tanto badato perché s’era lasciato catturare da certe esistenze che gli si erano palesate, e durevolmente: gatti in lotta, invisibili e ferocemente rumorosi, un gallo paranoico che aveva cantato tutto il tempo da qualche casa laggiù, incantato forse da tutte quelle stelle chiare. Sì, una luce insolita aveva pulsato, una luce acida, che risucchiava i pensieri, stordiva i sensi e un poco intimidiva. Perciò, lui non s’era potuto gustare appieno i tipici e meritati frutti dell’insonnia, a parte un paio di cicche e quella cosa che, come poche altre, gli faceva ricordare d’essere biologia, corpo tanto vivo quanto insolente: il sudore. 
Aveva molto sudato, vestito pesante com’era ancora, bloccato per così dire all’indietro, nel freddo d’una stagione del tutto trascorsa. Soprattutto, aveva sudato nel sogno, tremendo, in cui qualcuno gli aveva scoperto la fronte, le orecchie, la nuca, le spalle a colpi violenti di macchinetta taglia-capelli senza che lui potesse opporsi, immobilizzato nelle gambe, nelle braccia e nella lingua: né riusciva a fuggire, alzarsi dalla sedia, né a dire che non erano questi gli accordi, riguardo ai suoi capelli. Così adesso a bloccarlo c’era un po’ anche quella sensazione di errore colpevole, come di fallimento irrimediabile, malamente riequilibrata dalla scoperta che s’era trattato solo di un sogno. Insomma, sentiva che quella casa, in un certo senso ristrutturata dalle misure dell’isolamento generale, non era esattamente lei a isolarlo, bloccarlo, chiuderlo. C’era ben altro, gli pareva, e non era ancora chiaro se fosse qualcosa nella sua testa, oppure qualcosa di più oggettivo, magari inconsapevolmente condiviso più o meno da tutti in questo strano momento. Forse, il punto era il non sapere più il giorno del mese, della settimana, cioè aver perso il filo di un po’ tutti i conti e non sentirne il peso, perché domani era come già stato e le scadenze, di ogni tipo, erano smascherate. Ad ogni modo, no, non era la noia, il suo problema: da fare ce n’è, sempre. Qui, poi, si sta bene, tra studio e cortile.
Lo studio è accogliente e al riparo da ogni possibile invasore domestico. È un posto soltanto suo e gli altri hanno il buon senso di starne alla larga, specie quando la porta è chiusa o accostata, ché c’è bisogno lo si lasci in pace, a lavorare o anche solo pensare. Inoltre, è un bel posto. La stanza, luminosissima, ha un’intera parete fatta di solo vetro, che riempie gli occhi di linee dolci e colori tenui dall’esterno, di voli rasoterra che non piegano, col peso dei corpi, neppure il più delicato tra tutti quei fiori, lí fuori a movimentare prati sconfinati – ben visibili da sopra il recinto.
Falso.
La finestra dello studiolo è oltremodo piccola e la vista una scena mediocre: ferro, cemento, sassi grigi dalla stradina. E’ tutto un incastro di perimetri, recinti e qualcosa di verde che, nel complesso, incide zero. Ci sarebbe il bianco candido dei fiori del pero, ma li può vedere solo armandosi di molta pazienza, perché quei fiori ci sono, certo, in grappoli fitti e leggeri, e già impolverano il suolo al primo colpo di vento, però sull’altro lato della casa, offrendosi unicamente alle due finestre sulla facciata opposta a quella del suo cortile. Deve attraversare stanze, quindi incontrare di sicuro qualcuno, perciò sorridere, rassicurare, condividere, rompere la messa a fuoco costruita in ore e ore di ritiro nel retro-casa, se vuole davvero vederli, i fiori. E lo vorrà prima o poi, perché a immaginare sempre, a immaginare soltanto, ci si stanca e qui davvero non c’è molto che sia reale e nel contempo vitale. Il cortile è minimo, incastonato tra muri, adatto tra l’altro a raccogliere il peggio: grovigli di polvere e capelli persi, per esempio, foglie morte da ovunque, poi cattivi odori, come ieri quello tremendo della grigliata di sarde da un giardino neanche troppo vicino, come oggi quest’odore di chimica dalla vicina zona industriale.
E pensare che, appunto, prima era Porto Marghera il brivido più grosso qui, la convivenza col rischio vero – andava considerandolo da un mese, all’incirca, ridendoci, a volte. Che siamo più esposti di quanto credessimo e che sia tornato quasi del tutto non negoziabile il morire sono le sue preoccupazioni più nuove, ma anche stavolta non c’è qualcosa che lo turbi davvero. Ci costruisce su i suoi bei ragionamenti, certo, mentre va ripetendosi che lui sarebbe anche pronto, pur con i suoi incompiuti e i traguardi che cominciano a sembrargli tutti soltanto ingenui pretesti e pur con quell’artificiale senso di sfida, che lo incendia ancora sebbene gli sia chiaro da un pezzo che non siamo fatti né per vincere, né per perdere. Insomma, resta molto ancora di sospeso nella sua vita eppure si sente pronto, e lo va dicendo. Lo ammette non appena ne ha l’occasione: Ho zero paura della morte.
Anche oggi, già sono tre volte che lo ripete da quando s’è fatto giorno, e anche adesso, a voce alta nel cortile fattosi respingente. È al telefono col suo vecchio che gli raccomanda di non andar fuori se non adeguatamente attrezzato: mascherina guanti distanze e quant’altro.
– Mica ho paura, io: se è l’ora, è l’ora. Comunque non esco, tranquillo papà, siamo riforniti già di ogni cosa. Tutto a posto, certo, noi qui stiamo bene. E tu invece, che in teoria saresti più a rischio… Non ne parli mai, però dimmi, hai paura?

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