Piccolissimi fiori ma carnosi, cioè con un loro non trascurabile peso nonostante la parziale disidratazione, puntinano di chiaro i gradini di ferro e la loro verniciatura a pennello – grigio antracite. La fioritura dell’alloro, dopo aver tenuto sospeso l’incanto nello sguardo per diverse settimane, sta già diventando qualcos’altro, e lo fa rendendo partecipe quasi tutto. Ogni cosa, e ognuno, paga il prezzo dovuto. Il ramo perde quell’aspetto leggero, gioioso. La scala è costretta a ospitare corpi estranei, a sporcarsi. E tu: puoi fare come niente fosse, dedicarti al tuo daffare consueto restando indifferente, seguitare con la tua vita dai significati ben definiti, più o meno inconsapevoli, e quindi arrivare all’anno successivo, il prossimo aprile, ritrovandoti magari a dire che forse dovevi farlo potare da un esperto, il tuo alloro, ché s’è fatto davvero invadente. E nessuna considerazione che vada un poco più in là dello sfioramento fugace, inevitabile quanto innegabile, tra te e quello che ti capita attorno: poco male. Se non fosse che anche questo è un bel costo, non meno di quanto non lo sia l’impasse – il corrispondente turbamento e lo sforzo per il suo superamento, se mai avverrà – generato dal tuo farti carico delle molte cose che, tra l’altro, andrebbero avanti benissimo anche senza la tua considerazione.
Ha all’incirca diciott’anni quest’albero, ma è davvero enorme. Sarà quasi quaranta centimetri di diametro, alla base, tanto che ha sconnesso tutto il cordolo dell’aiuola stretta e lunga che lo ospita, dedicata alle erbe aromatiche. Dario non avrebbe mai detto che sarebbe cresciuto così, altrimenti mica ce l’avrebbe messo. D’altra parte, non ci sono altri punti adatti a un albero qui, perché il resto è superficie cementizia e, sotto, un intrico di tubi: a fare una specie di penisola infrastrutturale, che tiene una casa come in parte e, tuttavia, la mette inesorabilmente in relazione con le altre e il resto e, dunque, ci distribuisce, nostro malgrado, nella rete del mondo come sue stesse parti. Aveva a lungo sognato l’assoluta autonomia da ogni sistema invece, Dario, salvo poi arrendersi del tutto, a maturità inoltrata, accettando via via il fatto che quei modi di esistenza, ricompresi nella versione del mondo che s’era impuntato di rifiutare, lui li conosceva solo in parte minima e, più ci s’immergeva, più la percepiva minima. O, per meglio dire, più andava a fondo nella scoperta e più l’universo che gli si definiva tra le mani si rivelava peculiare e refrattario alle generalizzazioni, capace di negare tutti i principi che erano sembrati fino a lì ancora validi. Per questo, sostanzialmente, a un punto era restato dov’era capitato, innanzi tutto per questo.
Riguardo all’albero, forse sì, lo avrebbe messo giù ugualmente, ed esattamente lì, ché tanto diciott’anni sono una vita e, all’epoca, non avrebbe considerato possibile fermarsi così a lungo nello stesso posto – se cresce troppo, beh, sarà un problema di altri, avrebbe magari pensato. Invece, Dario è ancora qui, con i suoi intrecci di pensieri difficili e cose da fare, quotidiane sempre più, cioè ordinarie, parte di routine stabilizzate così tanto da sembrare una trappola, ma solo finché non valuti che esse costituiscono il solo sistema efficace e garantito che ti permette di condividerti un po’ – un aspetto, questo, che coll’avanzare dell’età si va facendo sempre più vitale per Dario, davvero fondamentale. Persino sorseggiare il caffè alla finestra ogni mattina e piano, talmente piano da farlo durare finché non siano passati il 18, il 18E e 18E-Limitato, persino questo gli fa sembrare di avere qualcosa di veramente importante da spartire col mondo, ben più della sua casa, s’intende, per come essa appare modificando il contesto, per come si struttura, per come accoglie e non accoglie. Pare quasi che quegli autobus li faccia andare lui stesso, semplicemente così, assistendo da lontano al loro percorrere il breve tratto della statale sul quale ha controllo visivo.
Ora, poi, che le corse sono state ridotte e sono attivi solo il 18 e il Limitato, ora che quei lombrichi arancioni sfrecciano più forte che mai e sempre puntualissimi, data la pressoché totale assenza di traffico dovuta al lockdown, ora che quasi sembrano staccarsi un bel mezzo metro da terra così vuoti come sono, a lui sembra di avere un ruolo ancora più importante nel buon funzionamento del trasporto pubblico locale. Gran bella sensazione, sì, se non fosse che, dai e dai, il vuoto ha cominciato a sentirselo lì, a vederlo insediarsi in casa sua e ora è sul punto già di stabilirsi per sempre tra le poche stanze, intrecciato a questo nuovo senso di inutilità assoluta del tempo, o almeno del tempo così com’è andato articolandosi una vita dietro l’altra. Sì, ne ha avute molte di vite, Dario. Per farsene un’idea basterebbe anche solo passare in rassegna i numerosi posti dove ha abitato fino a prima di arrivare qui – e, talvolta, pur stando nel contempo qui. Però, non è affatto un’operazione gradevole per lui, ne fa volentieri a meno, ché non c’è una casa che possa ricordare senza rivivere tutte le sensazioni che gli ha dato, né una della quale non senta terribilmente la mancanza, pensandola.
La scalinata trema a ogni folata di vento che modifica la geografia di petali chiari sui gradini scuri: resti di fiori minuscoli che vanno, resti di fiori minuscoli che vengono. Traballando appena, la struttura metallica emette la sua voce stridula, fastidiosa. Pare che inviti a scendere giù.
È il silenzio della sfioritura, però, la più forte di tutte le voci nei pressi. Essa chiede di restare, invece. Dice: non muoverti, bisogna ancora aspettare per vedere tutto, per conoscere.
A Dario, che non ha mai saputo com’è che s’arriva a conoscere il prezzo delle cose, viene in mente che sarebbe utile scovare un qualche metro, un modo per capire ogni volta cos’è che costa meno.