Gina & Marieta (1° maggio)

Resti lì tu adesso. Non ti tiro su, no – aveva parlato al suo bastone, che era scivolato a terra. Da quando s’è rifatta l’anca, ed è già più di un anno, Gina ha dovuto adottare Ménego – così lo ha ribattezzato. Però, solo per sentirsi più sicura, dice, certo non perché non sia buona a camminare senza di lui. Non appena può, infatti, se ne libera. L’aveva appoggiato al vecchio prugno poco prima, fermandosi a chiacchierare e gustandosi il poter abbandonare un poco il suo mezzo busto al punto di contatto tra la spalla sinistra e il tronco drittissimo e regolare dell’albero, tirato su con cura e sapienza, quella volta.

Gina, curvandosi in avanti con sbilanciamento a destra, piegando con fatica le ginocchia, a gambe un poco divaricate per acquisire stabilità, e scomponendo il braccio in un numero impensabile di tratti, per lanciarlo a recuperare Ménego, aveva perso la mascherina del governatore, come la chiama lei. Le si era sganciata dalle orecchie e aveva cominciato a volteggiare, ma con peso. Sicché Marieta s’era improvvisata acrobata e gliel’aveva ripresa al volo, acquattandosi rapida, con gli occhi sgranati e una smorfia che mutava sensibilmente buona parte del romanzo della sua faccia senza sopracciglie, scritto e riscritto da rughe e pieghe altere che le danno un che di mondano, l’aurea di chi ha intensamente vissuto ma sempre preservando una buona dose di leggerezza.
La mascherina era stata dunque recuperata prima che toccasse terra, una terra battuta e polverosa in quel metro quadro asciutto e arido, del tutto estraneo alla compostezza produttiva del resto, dell’orto. Era però anche l’unico pezzo che appariva sincero e accogliente, grazie al lavoro invisibile dei tre alberi: il vecchio prugno e due peschi, vecchi anch’essi e infruttiferi. Molto ravvicinati tra loro e con le chiome, tenute basse, che si mischiano, essi cambiano la luce e modulano un respiro differente, promettono sorprendenti simmetrie con l’Umano, presagendo l’affiorare di visioni e memorie abissali, magari una sera d’estate, sottovoce tra sorsi di vino ghiacciato rovinato solo un poco dal fumo di piretro al geranio.
Gina non s’era arrischiata ad appoggiare di nuovo il bastone alla pianta, se l’era tenuto mollemente con sé, tornandosene ad affidare parte del corpo al prugno, sempre parlando, parlando, e ora a viso scoperto – entrambe. Conversavano di orti, appunto, e di che tipo di giardino ha più senso tenere attorno a queste case qua, nate umili, mai rinnovate davvero e fattesi già così vecchie. Le divergenze erano sul senso del tenere alberi che non danno frutti, come questi tre, che avrebbero oramai troppi anni e che, comunque, costano bei soldi, se vuoi mantenerli in condizioni tali che non diano fastidio: vale a dire farli potare e trattare contro i parassiti anche più volte in una stagione. Questo sì, lo devi fare – sospirò Marieta – se vuoi almeno poterci stare sotto, per prendere l’unica cosa che possano ancora darti degli alberi così: un po’ di fresco.
Se dunque Gina era per il taglio definitivo, lei era invece per il non interferire troppo con lo stato delle cose: Non mi va di togliere roba che c’è sempre stata e che, sinceramente, a me grande fastidio non dà. Nessuna delle due comunque fece almeno un cenno al fatto che quei tre alberi in reciproco, continuo dialogo d’ombre silenziose e fronde vocianti anche adesso che giusto un filo di brezza le faceva tremare, erano semplicemente piacevoli, così, di per sé. In qualche modo, invece, ognuna delle due rivangava certe ragioni pratiche, misurando il mondo con il proprio peculiare senso dell’utilità, mentre ripassava con la mente brani del personale libretto di economia morale scritto col sudore e il sangue di tutta una famiglia.
Abitano i mondi di due stradine parallele, Gina e Marieta. A volte migra la prima, come oggi, altre volte migra l’altra. Una via è cieca, quella di Gina, mentre l’altra, quella di Marieta, s’inoltra verso i campi, per poi portarti, in mezz’ora abbondante di camminata, fino alla strada statale. Tra loro, poche case, poi baracche costruite con pezzi di spazio rubati al mondo nei momenti in cui il vento ha aiutato, complice, soffiando deciso. Piccoli spazi accatastati progressivamente, uno sull’altro alla meno peggio: fino a comporre, per esempio, una rimessa per gli attrezzi, un piccolo magazzino più rifinito per conservare vari generi più che altro alimentari, un pollaio basso e buio, un garage per una vecchia utilitaria rimasta inserita per anni millimetricamente tra muri di forati da dodici, con la porta ex scorrevole, di ferro e ruggine, lasciata definitivamente e inutilmente aperta. Insomma, pezzetti di spazio dietro pezzetti di spazio che si raccolgono in costruzioni irregolari e precarie, dall’apparenza malsicura, con tuttavia un filo rosso che le cinge e le stringe una a una e poi le collega tutte tra loro, ora rivelandosi e ora scomparendo, comunque sempre trasformando la confusione in ordine, inducendoti a pensare che sì, anche tu, da estranea, ti ci raccapezzeresti lì, in mezzo a tutto.
Entrambe, Gina e Marieta, sono qui da più o meno sessant’anni e ininterrottamente, tranne qualche pausa negli ultimi tempi: qualche degenza ospedaliera, tuttavia mai prolungatasi molto, poi le due seconde settimane di agosto da trascorrere un anno sì e uno no ad Asiago con la figlia e il genero, per Gina, e due settimane ogni giugno a Cattolica con quelli del centro anziani, per Marieta.  Si trovano nella stessa zona perché i due ragazzi che sposarono erano tra loro cugini: due eredi metal-mezzadri tipici di qui, che fino all’ultimo non hanno amato altro che lavorare quel poco di orto che gli era toccato. Erano nate a tre anni di distanza, Gina e Marieta, nello stesso raggio di quindici chilometri da dove poi sono finite. Una è originaria del Miranese, la più piccola di sette fratelli maschi. Invece l’altra viene da Piazza Vecchia, anzi da un poco più avanti, mezzana di dieci tra fratelli e sorelle. No, credo che nessuna delle due avesse fatto nuovamente cenno al tempo dell’infanzia, tentando di trattenermi lì ancora, o almeno io non lo mandai in memoria. Certamente, però, ripresero un altro vecchio e affezionatissimo tema.
Fu Marieta, involontariamente, a cominciarlo. Si lagnò per il blocco dovuto al virus e le giornate sprecate a far niente e l’economia che se ne va a remengo e l’isolamento, cioè la solitudine, che lei solo adesso sta un po’ capendo che cos’è. Poiché Gina aveva subito minimizzato la pesantezza delle restrizioni, lei le rinfacciò che allora non avrebbe mica potuto trovarsi lì, in quel momento, senza effettive protezioni nel suo cortile, anche se era andata solo a farsi dare delle canne e anche se queste canne le servivano urgentemente per l’orto. Gina ci rimase un po’ male, si vedeva. Così l’altra cercò di rimediare.
– Voglio dire che non è giusto quello che ci stanno costringendo a fare. Questa storia dell’essere anziani e tanto soggetti a rischio non mi va mica bene. Se hai più di 75 anni non puoi muoverti di casa da sola, devi essere accompagnata: ma ti par giusto? Io non ne posso più di stare bloccata qui, credetemi.
– Se hanno detto così, significa che è giusto così. Ma tu, poi, dove devi andare, cosa ti cambia se esci o se non esci?
– Mi cambia, mi cambia. Non sono mica buona a stare in casa, io. Lunedì, giuro, vado fino a Oriago! Prima del virus ci andavo una mattina sì e una no, vi ricordate? Con la scusa di una cioppa di pane, almeno scambio due parole!
– Ma cosa dici, Marieta, andare fino in centro e ritorno, farti tre chilometri a piedi per una cioppa di pane, ma va là. Te ne puoi comprare abbastanza magari una volta a settimana, di pane, lo metti in congelatore e, quando ti serve, lo tiri fuori. Non è una scusa buona, il pane, dai.  E attaccati al telefono, quando vuoi fare due parole!
– Gina, finché sono buona a far la strada, io la faccio, perché non è solo per il pane, o per fare due parole. E’ che ogni tanto c’è bisogno di vedere qualche faccia diversa, un po’ di movimento…
– E tu, un giorno sì e uno no, perdi tutta una mattina così, tra la strada da fare, il vedere due facce e compagnia bella?
– Ma, ascolta, cosa altro ho da fare io la mattina secondo te?
– Niente, hai da fare, niente. Ma non hai da fare niente solo perché non vuoi far niente. Io ho sempre da fare, invece. Perché non sono buona a stare con le mani in mano. Ora è l’orto, ora è il cucire, ora è la conserva… Non sono buona a star ferma, perché io ho sempre lavorato, sempre. Dio solo sa quanto ho lavorato!
– Anche io ho sempre lavorato, cosa credi?
– Eh, ma non come me. Devi sapere che eravamo in tredici in casa noi altri e per anni mi sono dovuta occupare di sette uomini, più i miei tre figli e più mia suocera, che non vedeva l’ora che arrivassi io per potersi mettere a fare la signora.
– E perché, io no?! Mia madre mi aveva mandato a lavorare fuori, che non voleva mi perdessi coi campi, ma poi quando mi sono sposata… tu lo sai cosa ho passato.
– Lo so, lo so cosa hai passato, ma lo abbiamo passato tutte, chi per una cosa, chi per un’altra. Il fatto per te è che non eri neanche abituata.  Tu ora mi dirai su parole, ma va bene: a lavorare sì, eri abituata, però non a lavorare duro. Eri abituata a un altro tipo di lavoro, ecco.
E avanti così ancora, come in un mercatino e nessuno che sia interessato alla merce. O come in un teatro senza altro pubblico che me, casuale e incatturabile, destinata invece ai campi, quel mattino, in uscita libera come da qualche giorno, del resto, sebbene tardiva stavolta, ché era il primo maggio e la gente adesso, sulle dieci, quando il sole un po’ scalda, si sarebbe mossa e probabilmente non più in solitaria. Allora chissà – questo m’interessava scoprire – se stando in compagnia non l’avrebbero fatta finita tutti quanti col saluto solidale, quel buongiorno a voce altissima e maledettamente cortese, che costringe quelli come me a ripetere buongiorno pur senza aver capito chi c’è sotto la mascherina. 

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