Difficilissimo lavorare così, non ne posso più. Però, lo sapevo già: la mediazione esasperata non fa per me. Così ho il corpo in pezzi. O forse è vivere così, con queste restrizioni imposte, che lo distrugge. O forse è proprio il lavoro, i significati che s’è preso – questo terribile equivoco.
Ho le idee alquanto confuse su come mi stanno andando le cose, lo ammetto, ma non sta nelle idee il punto. Il punto sta in questo corpo invece, nel fatto per esempio che mi ritrovo un punteruolo piantato nel collo (arrivò anni fa, ma ora ha potuto approfittare del momento per incarnirsi ben bene), poi uno nuovissimo e davvero sorprendente messo di traverso da S1 a S5, mi pare, e un altro nel ginocchio, il sinistro, conficcato dal davanti.
Se non fosse stato per loro, i ragazzi, se non avessi avvertito quel gran spaesamento nei loro sguardi e non fosse intervenuta la necessità di supportarli, accanto al consueto condividere strumenti analitici, avrei mandato tutto a farsi friggere. Se non fossi stata assalita dal loro timido spavento quando furono chiari gli effetti del lockdown sull’attività didattica, se non avessi provato a mettermi nei loro panni e l’incertezza non fosse stata così abbagliante e familiare, beh, avrei detto: Guardate che non si può manco sentir dire corso-on-line, io mica lo faccio.
Invece l’ho fatto – lo sto facendo. E quel che è peggio è che ora sembrerebbe che tutti, colleghi, studenti e, sì, anche io, già l’abitiamo quasi con disinvoltura questa specie tremenda di avvilito spazio irrisorio e ovunque identico, in un istante percorribile… per citare seppur malamente il Cucchi Maurizio che sti giorni mi sta sulla scrivania come un manuale degli antidoti. O come oggetto centrale di un rituale che comincia col fissare irresistibilmente il taglio davanti del libro, prosegue col far suonare i fianchi delle pagine dal pollice, sniffando ad occhi chiusi, e finisce coll’apertura di una pagina a caso, per qualche istante di lettura, cioè sana rottura, mentre sei alle prese con Teams, o Zoom.
C’è chi dice che il prossimo ottobre, quando arriverà il compenso del corso, dovrò pagarmi una fisioterapia fatta bene, chi dice che basterebbe della sana psicoterapia ma sin da subito – lo dice per irritare – e chi invece, per farmi ridere, suggerisce un programma detox in un ameno angolo fuori dal mondo. In effetti, ridere è già un aiuto, anche se al telefono è sempre come ridere da soli. Però, io credo che per stare meglio dovrei solo reimparare a incontrare la poesia, intendo quella dei viventi mentre tessono il fiato, quella che non capiterà mai e poi mai in una videocall, in nessuna diretta. E mai neppure in un canto, nessun tipo di canto, se non c’è compresenza.
quarantena, isolamento, stare a casa, video conferenze, distanza da rispettare…
tutto assieme rappresenta un bel carico da sopportare per il corpo come per la mente
io spero che gradualmente questo peso diminuisca fino ad arrivare ad un livello sopportabile e quindi sparire
già, sarebbe bello. Però temo che ne avremo un lungo, lunghissimo strascico, specie a livello collettivo…
quando le regole cambiano e devi impararne di nuove ci vuole tempo
questione di tempo
e quando il virus sarà un ricordo ritorneremo alle regole di prima dell’epidemia?
questa è LA domanda :-\
immagino che non tutto ritornerà come tre mesi fa. ci saranno dei cambiamenti permanenti nei rapporti sociali e nel lavoro
Il punto è che (soprattutto) i cambiamenti andrebbero governati nella presa in carico delle fragilità, ma non mi pare sia questa la strada…
quello sarebbe l’ideale.
credo che ci è andata ancora bene, in generale, che la nostra società non sia crollata e che abbia mantenuto la voglia di farcela nonostante la guida incerta della politica.
poteva andare peggio
sì, poteva. E potrebbe. Maniche corciate allora, e dita incrociate (che i regressi siano solo temporanei)