Fannì

Fannì era il nome vero di una delle donne che si era a lungo portata nel cuore e non soltanto per via degli occhi blu – o forse erano violacei, sì, insomma: non così comuni. Era stata catturata anche dal rosa vivido delle sue guance: esaltava il pallore generale, aggiungeva grazia a le minuscole lentiggini sul naso e il sorriso generoso. C’era una gran dolcezza nelle sue movenze e si sa che i bambini ne sono attratti. I grandi cerchi d’oro ai lobi, che catturavano la luce tra i capelli biondo cenere, lisci e fini, stonavano un poco con tutto, ma avevano il pregio di aprire questioni fondamentali a chi si trovasse ad osservare quel volto, magari in una conversazione, mentre dalle labbra sottili si diffondeva un accento esotico, da centro-nord del Paese. I diversi anni già trascorsi nel quartiere non gliel’avevano cambiato.
Era cambiata, però, la taglia delle sue gonne, lo diceva sempre. Aveva iniziato con l’allargarle il più possibile, quando la fattura del capo lo permetteva. Aveva poi preso ad apportare modifiche più elaborate, tagliando la gonna fino a un palmo sotto la cintola, dove il disegno s’allargava, e aggiungendo della fascia elastica in vita, per un’altezza di almeno tre centimetri – aveva la Singer, gliel’aveva data sua madre. I risultati erano passabili, a suo dire, se non fosse che aveva cominciato a ritrovarsi con tutte le gonne corte, appena sotto al ginocchio, che quando poi sedeva erano ben sopra al ginocchio, e questo le dava un fastidio tremendo, ché non le piacevano per niente le sue gambe. S’era anche ricomprata qualcosa di nuovo e, addirittura, più abbondante del necessario, perché lei era previdente, si sapeva. Erano per l’esattezza tre, le gonne nuove: un pomeriggio di luglio faceva il punto insieme alle altre, con le quali sedeva sempre in un angolo ben ventilato del piazzale – ognuna la sua sedia portata da casa – appena finite le pulizie del dopo pranzo tra un compito e l’altro dei figlioli e prima di cominciare a preparare la cena. Erano tre gonne bellissime: una in jeans grosso e molto scuro, un tubino, una con molte pieghe, in gabardine leggero, beige,  e l’altra in un curioso tessuto verde pistacchio, operato, a trama grossa, davvero particolare, con una piega a cannolè sul davanti e una sul di dietro. Questa le piaceva davvero un sacco e, anche se le era costata persino meno di quella in jeans, aveva un valore ben superiore – era stato davvero un affare, ché la sarta l’aveva fatta per una cliente che non l’aveva più voluta, quindi aveva dovuto darla via a poche lire. Fannì se la riservava per le occasioni. Quella in jeans la metteva spesso, invece, perché voleva scolorasse coi lavaggi e l’uso. C’indossava, di solito, un top color nocciola che le stava un po’ piccolo e le schiacciava leggermente i seni, evidenziandoli attraverso la scollatura. Su quell’indumento tutte nel quartiere avevano avuto da ridire e, alla fine, la convinsero a disfarsene. Fu in un pomeriggio terribile, caldo, opaco e senza uno sbocco anche minimo verso qualcosa di aperto e arioso. Uno dei bambini più piccoli s’era fatto male cadendo dalla bicicletta ed era finito al pronto soccorso. Tutte stavano discutendo dell’accaduto attorno alla panchina verde che il Comune da poco aveva installato. Un tizio, uno nuovo, poi subito sparito, che Anna non ha mai capito chi fosse, canticchiando I can’t get no satisfaction cause I try and I try and I try and… le si avvicinava sempre di più, sempre di più, chinando la testa giù verso il suo décolleté, finché lei dovette scansarsi e fargli presente che era una donna rispettabile. Più tardi, le altre, sottolineando la sfacciataggine del tizio, le dissero che era stata tuttavia colpa dell’indecenza di quella scollatura, la quale istigava e, certo, non le si addiceva e dunque, dissero unanimi, era meglio dimenticarsi di quella specie di canottiera, che era pure brutta, di per sé, oltre a starle male addosso. Comunque, di solito se qualcuno le diceva qualcosa su come vestiva, elargendo o complimenti o critiche, lei faceva sempre presente che quando arrivò in quartiere portava la quaranta. E guarda adesso come mi sono ridotta, aggiungeva con un sospiro e parole sempre parsimoniose e un po’ nasali – trovò il modo di dirlo anche quella sera.
Anna, che in tutte le donne che le capitavano  studiava le qualità buone che sua madre non aveva, pensava Fannì come una specie di fata squalificata, un essere superiore che aveva fatto qualche sbaglio, magari uno soltanto ma grave, una volta, e aveva perso i suoi poteri – ma forse non tutti, chissà. Era per riscattarsi che si trovava lì, al margine di un uliveto che s’andava continuamente restringendo, subito dietro al mattatoio, nel quartierone fatto d’asfalto rovente, smalto marrone sulle ringhiere incandescenti, terrazzini con file di bacinelle d’acqua a scaldarsi l’intero giorno per il bagno della sera e il verde, fresco, tutto quanto nei giardini delle case degli altri, le indipendenti recintate, silenziose e rassegnate alla pressione estetica dell’edilizia popolare.
Negli anni, almeno fino a quando Anna non lasciò il quartiere, Fannì conservò la sua taglia quarantotto, tra alti e bassi, così come l’accento, poi parlò sempre meno e smise del tutto di portare la gonna. Dopodiché, non ne ha più avuto notizie – è un pezzo ormai, a parte un pettegolezzo, che chissà quanto corrisponde alla realtà. L’unica voce su Fannì che l’abbia mai raggiunta da quando è via, dunque, riguarda il fatto che era venuta a sapere, dopo tanto, della seconda famiglia di suo marito. In sostanza, lui aveva una mantenuta, come si diceva allora, lì, senza alcun riferimento al denaro, bensì semplicemente intendendo una persona che tieni nella tua intima orbita più o meno segretamente o, comunque, come partner non ufficiale. Era una donna del posto. Stava molto bene di famiglia e dunque era un po’ viziata, dicevano, perciò non si faceva mancare niente e, soprattutto, non si faceva tanti problemi per gli altri. Si frequentavano regolarmente e la storia era iniziata sin da subito, cioè appena un anno dopo il matrimonio con Fannì. Anzi, qualcuno dice che era una vecchia relazione riaccesasi casualmente. Anche con  lei aveva avuto due figli: vivevano con la madre in quella che era come la seconda casa di lui e stava solo qualche isolato più in là della sua prima casa, cioè quella in cui risultava risiedere e dormiva la maggior parte delle notti, con Fannì e i due figli avuti con lei, quasi coetanei degli altri due. A un punto tutti lo sapevano, in quartiere, tranne Fannì e i suoi ragazzi. Lo sapevano anche quelli più distratti, i sempre appartati, quelli delle villette, i bambini e i cani, sebbene qualcuno, come Anna, avesse sempre creduto fosse un’assurdità, una macchinazione di quella bestia feroce che era il quartiere. Ad ogni modo, dopo un paio di decenni, ne era giunta notizia anche a Fannì e pare che lei avesse presto imparato a soffocare la sua indole orgogliosa: un po’ per assecondare i figli desiderosi di fraternizzare con gli altri due, un po’ per preservare la routine, che era l’unica vera forza delle famiglie, lì. E anche perché fare l’amore era sempre stato una buona cosa per lei e l’intesa sessuale con suo marito mai era venuta meno: questo era almeno quanto aveva rivelato a una confidente. Così, la sua esistenza era proseguita tra le solite bestialità della vita quotidiana e tanta cattiva bile addizionale – sì, ma certi posti sono la migliore palestra, per il fegato, si sa. Insomma, Fannì era sempre lei, stava sempre lì e, tutto sommato, stava bene: questo ha saputo Anna qualche tempo fa e, dunque, l’ha dimenticata, all’improvviso.
In questo mattino di giugno, però, una manciata di corolle non esattamente blu, un po’ violacee, comunissime ma ancora inattese, questo cambio improvviso delle infiorescenze che incorniciano il grano, anch’esso cambiato – in puro oro, dal verde brillante di nemmeno dieci giorni fa – gliela hanno ricondotta tra i pensieri, Fannì, la fata senza più poteri.

4 pensieri su “Fannì

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