E’ tornata, stamattina, ed è restata. Ho aperto le tende ché s’era ormai fatto giorno e l’ho vista. Scatto una foto, le ho detto, poi ti metto in cucina vicino al caffè. Ma è bastato aprire la finestra. Nessuna foto. Dunque ho guidato per poi camminare, più zoppa di ieri, con già prefissato un tratto di strada da fare. Ci ho messo un po’. Lei è rimasta sempre intorno, in ondeggianti, lenti abbracci di generosa ampiezza. Abbracciava tutto.
Acido nelle narici. Marghera sembra Milano ghigliottinata. Sotto uno sguardo mediorientale, la voce di ragazzo urla al suo smartphone. La mascherina altera i suoni e lui forse non si riconosce. Forse per questo la toglie. Gli cade. I lineamenti olivastri con la nebbia ci danzano. La padroneggiano. Comincia a colare, il mascara. Torno indietro. Marghera sembra un paradigma giunto alla fine. La città giardino e gli innesti proletari; la città proletaria e gli innesti contadini; eccetera. Detesto i cappotti di trapuntato, imbottiti e aderenti. Imbottigliano i movimenti e gli spiriti. Donne in fila fuori ogni banca: ma che giorno è..
Il sudiciume della strada diventa tutto quanto visibile, con la nebbia. Così vedi bene come sale addosso alla gente, mentre tu sei già nell’auto a pensare che le retoriche, quelle che funzionano, legittimate dai padri, sedimentate, inscritte qui dentro, ingessate, beh, se ci pensi, in un nonniente le smonta il momento, l’intersecarsi qualsiasi delle esistenze, istantaneo. Per esempio, un commentatore radiofonico che ride a crepapelle dello sciamano di Trump e la sciarpa attorno alla testa di quella donna laggiù, color verde muschio, e gli intonaci scrostati di questa periferia in diradamento, dove le strade le lava solo la pioggia. Ma sono tornata alla mia finestra sul Brenta. E nessuna foto. Tanto lei c’è ancora: si rinfittisce, nel crepuscolo, risommerge le cose del tutto, ritoglie loro quella voce banale. E, confesso, anche per questo mi piace.