I nostri passi segnano l’argine in una scia perfettamente parallela a quella del cormorano, che procede alternando al volo serie importanti di rimbalzi sul pelo dell’acqua. La scena l’ha descritta lei. Non esattamente con queste parole, ma più o meno così e, comunque, con lo stesso tono didascalico. Certo, a voce alta – da sotto la mascherina nera. Secondo lui non è affatto un cormorano, quello lì. Non sa dire cosa possa essere, ma di sicuro non un cormorano. Ci sono orme fonde di zoccoli di cavallo, che ci precedono, poi un calpestio umano stranamente rumoroso a raggiungerci rapidamente, da dietro, e, in senso contrario, un braccio che ondeggia attaccato a un guinzaglio che tira. E ci sono voli d’altra specie, articolati più che altro in balzi ampi e mini saltelli. E’ così rada la trama dei battiti di questo mattino invernale. Quasi tutto è fermo; un po’ dorme, un po’ ristagna, come i pensieri rivolti al domani. Cosa faremo, come andrà a finire, dice lui, mentre lei si stringe nel giaccone e affretta il passo nelle scarpe da running, trascinandosi appresso quell’omone sempre più incerto. Li perdo, ché io vado piano. Anzi, rallento di più, cedo alle proteste del ginocchio, così la coppia si fa presto distante, ma, stranamente, s’allontanano anche i passi che sentivo giungere da dietro: una faccia arrossata sopra un busto mezzo curvo e gambe lunghe lunghe. Forse ci siamo già visti, tempo fa. Ha attraversato la stradina per restarmi a distanza mentre s’affianca: forse pensando al virus, dato che non indossa la mascherina, o forse pensando alla privacy, dato che è in vivavoce per una videochiamata. Comincia a nevicare, guarda, dice fibrillante la viva voce nel dispositivo. Ah, risponde la faccia con tono terribilmente piatto, io sto anno non sono ancora riuscito ad andarci, sulla neve, chissà. Dopodiché cambia argomento. Mi sono fermata a fotografare l’inverno in un rovo nudo, così, per perder tempo e lasciare che il tizio andasse avanti, ché già lo detestavo.