Mattino, aprile.

A incastrarci è una geometria di ombre lunghe, qui fuori, come un intersecarsi di lame gelide. Definire libertà ormai è facile. E fa ridere. C’interrompono, le ombre, in quest’attraversare il mondo come se il nostro vero posto, che sarebbe altrove, ci fosse stato estorto con l’inganno. Un ragazzo passa per la seconda volta col suo pitbull al guinzaglio corto e il sacchettino delle feci annodato. Se butti l’occhio un poco attorno, a quest’ora del mattino, è chiaro all’istante che invece siamo di qui tutti quanti.
Due donne in camminata veloce parlano di una festa dei cinquant’anni, tenutasi un lustro fa nel parco della tal villa. Una si rammarica del fatto che non ci potranno essere più eventi così. Mancherà il giusto spirito, dice.
Niente di strano se sembriamo indolori quando le ombre di aprile ci tagliano i gesti e le membra, mentre pascoliamo e scrutiamo la parte bassa dell’argine. Ci piace pensarci slancio, flusso, un tutt’uno, ma siamo elementi approssimati, mal (ri)composti ogni volta, arranchiamo: il dolore è di fondo. Lei si spinge col fianco contro il mio perone. Non parla, puntinata del giallo del tarassaco.
Un uomo al telefono dice d’una malattia, seduto sul muretto di casa: mi affatico, mi affatico ancora troppo, non lo so quando mi riprenderò la vita che avevo. E intanto il pero scaglia su di lui le proiezioni dei rami e, insieme ai petali della sfioritura, promesse, anticipazioni, visioni scontate. Non so perché, ripenso all’auto della polizia provinciale che sparava alle nutrie sull’argine opposto, una sera di una decina d’anni fa.
La ragazza col cappuccio arrotonda la linea delle spalle sul carrozzino mentre lo spinge senza leggerezza. Il ciliegio ha negoziato una duplicità col suo innesto – il bianco e il rosa. Anche il prugno: bianco e rosa. Ogni incontro ci ridimensiona. E riesce quasi sempre a spezzarci, un inizio. Malvina, che ha il ventre come una collina franata, ci abbaia con poca voce. Chi la conduce sorride, e la esorta: buona, sta buona Malvina.
Lontano, tu cedi i tuoi capelli sottili al vento freddo di questo aprile che non s’immedesima e t’assomiglia, finto empatico, ma mai spietato abbastanza. Abbiamo già ceduto tutte le voci che avremmo potuto trovare. Resta il grido negli occhi, qualche capello sul labbro.

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