I_miei_vicini.7(Antonio)

Lo spettacolo delle cose ha un esordio a ogni nuova luce, cioè ogni volta che Antonio apre gli occhi. Perciò, i suoi giorni sono sempre pieni di miracoli – e i miracoli cosa sono se non quelle repentine e talvolta dolorose aperture e riaperture del petto anche se niente era facile, niente era benevolo, niente era interessante, niente era giusto. Improbabile riuscire a orientarsi, così. E provare a farlo, fino a notte fonda iniziando ogni giorno dopo il caffè doppio che arriva più o meno all’alba, è il suo lavoro. Non che raggiunga chissà che esiti, eh. Quest’estate, poi, la mattina specialmente – i piedi nudi sotto gli oleandri e lunghi aghi di pino tra le dita, con quel po’ di fresco esalato dal recinto di cemento – gli capita spesso di rimanere perso per ore tra indecifrabili segni sparsi ovunque – anche nelle immondizie trova segni, certamente. Insomma, che riesca a orientarsi non lo si può certo dire; ci prova, ecco. Sarà perché l’occhio tramuta tutti gli assemblaggi in specchio già mentre li crea. Sarà perché oggigiorno l’imperativo empatico è tanto inesorabile quanto di moda. Oppure sarà perché lui, di suo, ha sempre tanto sentito, e tutto gli passa dentro. Sarà per questo – o qualcos’altro ancora – che il bianco e il nero entrambi lo commuovono e anche ogni tono di grigio, purché non gli coincida del tutto. Purché, cioè, sia garantito quello slabbramento dell’esistente, anche breve, dove io non sono più io e alter non è più alter. Ecco, è sempre stata in questo la sua ambizione di esserci e, ancor più, di non esserci: realizzare la sovrapposizione imperfetta. Quindi salvarla, l’imperfezione, buttando via le parti che combaciano.

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