Al parco

Seguendo un programma minimo, spingevo la quattro ruote di mia madre con accanto la canetta in demenza senile che tende a buttarsi sotto il mezzo: se la fai passare a destra, lei taglia verso sinistra, stringendosi alla carrozzina poco a poco, tanto da farsi pestare una zampa se non ti fermi o non la tiri indietro (e allora, dici, avrà la spinta a sinistra nel cervello, wow, così la fai passare alla tua sinistra, ma vien fuori che ha pure la spinta a destra: poco a poco converge e, lo stesso, si butta sotto le ruote). Insomma, difficile passeggiata serale, dopo lungo tempo, al parco della mia giovinezza, dove con il mio primo vero amore (cana) misi bene a punto la prospettiva quattro zampe e imparai il dissetarsi di verde dagli occhi di un essere non eretto.
Ieri sera si prevedeva molte zanzare, le tartarughe straordinariamente moltiplicate nel laghetto, almeno una congrega di fanciulli con musica trap da una cassa mobile, un corner shop segreto ma movimentato, con qualche palo placidamente ansioso, un certo numero di passeggiatori col cane, qualche serio camminatore e poco altro. E, invece, c’era anche un tizio con ogni aria di essere il tizio di una band, su un palco ben allestito nello spiazzo di fronte all’auditorio, con le luci giuste, e vere sedie da spettacolo disposte in file per gli spettatori, poi una consolle con due operatori affaccendati, qualche omone sul margine con la scritta STAFF sulla schiena, insomma: uno spettacolo vero.
Il tizio aveva un che di navigato e persino di mainstream, ma mia mamma ci vede poco, la cana è sorda e io sono ignorante. Dall’assolo del chitarrista elettrico, beccato appena giunte, da un paio di frasi sui genovesi e una cover di De André non potevo certo riuscire a capire chi fosse. Ad ogni modo, a lei interessava. Poi, la voce non era male, la musica boh, perché non restare?
Google, interpellato dopo poco in merito a quale evento fosse in corso sul posto, ci ha rivelato il suo nome. Tra stupore e contentezza, lei ha detto che era un sacco di tempo che non le capitava d’incontrarlo (sullo schermo tv, ovviamente): come non restare? Eccoci – il pubblico.
I presenti – non pochissimi, non tantissimi – sembravano coinvolti. Erano quanto meno attenti: su poltroncina, su bicicletta, con cane al seguito, coi bambini in distaccamento di sicurezza, agitando qua e là ventagli, alcuni vestiti da stasera si esce, altri vestiti da dormo in terrazzo, ciabatte di fortuna e i fiori bianchi del sudore sulla maglietta. Tutti catturati nell’aria ferma come in un notturno di Hopper, a dispetto di quel velo leggero là in fondo, agitato da chissà che fiato.
A dire il vero, quando s’è capito che il tizio è uno che fa precedere i pezzi che canta da un significativo blablà, mi sono fermata anche volentieri. Non che mi interessi il blablà nelle sere d’estate, ma… è che oramai mi si sta costruendo una bella tassonomia dei concetti espressi da quelli che parlano prima di cantare durante questi concerti appoggiati come per caso così, aridamente, su superfici impenetrabili, dentro angoli di strutturale ostilità a qualsiasi fioritura. Ogni volta spero di poterla ridefinire, la mia lista. Ma ogni volta la gerarchia si consolida. Al limite, c’è qualche scambio tra posti contigui o, sempre al limite, il caso specifico suggerisce un termine sostitutivo per meglio esprimere una categoria già presente, per sgrezzarne la forma.
Riporto qui solo cinque esternazioni-chiave di ieri sera, senza dire quante e quali siano per me new entry: accreditato (amico-di-questo-e-quell’illustre), scomodo (dice-le-cose-come-stanno), solo (unico-in-Italia-a-farlo), censurato (…), fatto-fuori (…).  Son già cinque? Ne aggiungo una soltanto: anticipatore (testi-di-trenteppassa-anni-sembrano-scritti-oggi).
Applausi. Il bis. Mia mamma s’era commossa alla prima apparizione del quarto concetto, cioè quasi subito; la cana aveva dato segni d’insofferenza, ma non immediatamente; io ho giocato alla piccola grounded theorist fino alla fine. Il pubblico, ecco.

Plateatico, Patti.

Gira un soffio scuro, segue la minaccia del temporale che aveva stagliato una luce gialla alle spalle di lei, nere di cotone grosso, la pelle chiarissima sotto i fori della lavorazione, il filato semilucido – vorrei  indossarla io una cosa così, sto morendo di freddo.
SAI CHE HO LAVORATO VENTIDUE ANNI PER UNA FAMIGLIA? Lui era rimasto in silenzio; Continua a leggere “Plateatico, Patti.”