Il fumo era diventato una sorta di consistenza che si appiccicava sui significati invisibili di quello stare lì, così, mezzi leggeri, con i nervi tutti protesi all’abbandono. C’era tuttavia il peso del voler tenere sotto controllo la situazione. Entrambi, si capiva, erano interessati a come ne sarebbero usciti, cioè al grado di desiderabilità che avrebbero mantenuto. Ad ogni modo, era stato un vero glorificare i sensi, in parte affidandosi alla loro capacità di ripulire il corpo dall’incertezza dell’esistere, in parte resistendo al pensiero insidioso che mira alla conservazione di sé senza profondi mischiamenti. Era stato il copulare perfetto: qualcosa ad un punto lo aveva reso necessario, e sacro, mentre un grado sufficiente di casualità nella logistica lo aveva magnificato. Ed era andata nel migliore dei modi, sì. Ora, però, i suoni che provenivano dal piano di sopra lo facevano come tornare a casa.
Poteva vedere i piedi bianchi di Luigina che, scivolati giù dal letto, lievi, sulla pavimentazione di legno fluttuante, producevano quel suono amatissimo. Sentiva le tavole flettersi leggermente, senza scricchiolare, mentre ogni passo dalla camera alla cucina raccontava comprensione e devozione.
Poteva vedere il gelsomino ramificarsi poco a poco, negli anni, rinascendo primavera dopo primavera, per farsi muro tra interno ed esterno. Era diventato un vero recinto tra la scelta e il caso, tra l’essere quasi del tutto esposto, a casa, e le cento maschere tra le quali prendere faccia a ogni nuovo più o meno importante pezzo di strada da fare lì fuori, da solo.
Poteva vedere le imposte socchiuse al mattino presto, tranne una, con la luce che inondava tutto lo spazio tranne la camera, limitandosi a filtrare piatta e innocua da sotto la porta – fessura sottile, necessaria per non sentirsi soffocare. Era la casa che aveva accolto in sé e che ora, a qualche centinaia di chilometri di distanza, sentiva di avere quasi tutta dentro.
Il fumo oramai si era già appiccicato anche a tutti questi, di pensieri, rendendo concrete le cose, cioè presenti, dure, spigolose e interne, quando un bambino – o una bambina? – lanciò un urlo e prese a piangere. Chiedeva: DOVE SEI, DOVE SEI. Chissà chi cercava. Non avrebbe mai più potuto vivere in un condominio, pensava, mentre s’infilava i jeans neri e stretti e poi, con il solito errore nella sequenza delle azioni compiute per vestirsi, cercava di infilare alla meno peggio i calzini sotto l’orlo dei pantaloni con una mano. Con l’altra mano slacciava le scarpe che, nell’urgenza, si era tolto così, senza allentarne i lacci. La cicca l’aveva passata a lei.
Porgendogliela, aveva detto con solennità nel tono e gesti estremamente rallentati: ECCO, A TE – era anche un grazie. C’era sempre stato in lui questo bisogno di pareggiare il conto, con le donne soprattutto. Da giovane, aveva mantenuto a lungo l’abitudine di lasciare una moneta, di solito da cento lire, alla persona con cui aveva fatto l’amore. La posava sul comodino, sul tavolo, sul bracciolo del divano. Gliela metteva nella borsa, in una tasca dei pantaloni, della giacca. Spesso anche del tutto a insaputa dell’altra – o dell’altro. E anche se poi gli incontri si ripetevano, la moneta c’era, ogni volta. Smetteva solo se la relazione diventava una vera e propria storia – raramente, in realtà. In questo modo, riusciva a crearsi una certezza sull’equità dello scambio. Insomma, sebbene solo sul piano simbolico, il suo conto risultava sempre saldato, pure nel caso avesse ricevuto più di quanto era riuscito a dare. Nessuno avrebbe potuto chiedergli più niente, poi. E se anche fosse successo, lui, comunque, poteva sentirsi a posto. Aveva così tenuto a bada per anni i meccanismi atavicamente complessi della coscienza. O, forse, essi erano semplicissimi all’origine ed era stato lui a complicarli, negli anni, coi suoi giochetti d’immaginazione. Fatto sta che a un punto non ebbe più bisogno di usare la moneta, anche perché in un paio d’occasioni gli era stato fatto notare che era alquanto di cattivo gusto. Perciò, pagava con una sigaretta. La offriva sempre. E se dall’altra parte c’era qualcuno che non fumava, non aveva importanza, gliela lasciava comunque, così lui aveva fatto la sua parte, questo contava. Non avrebbe accolto contestazioni di sorta.
Stavolta lei stava già fumando la mezza Yesmoke: poteva bastare. Era stato bello e – ci avrebbe scommesso – anche lei stava considerando questo: É STATO BELLO. Doveva davvero tornare però, adesso. La vita nell’appartamento di sopra si era fatta del tutto piena e i passi degli altri erano diventati già pesanti. Terminò di raccogliere le sue cose, poi, con gli occhi, la cercò. Era alla finestra, dandogli le spalle, e gli sembrò una specie di benedizione. Tirò fuori un’altra cicca dal pacchetto semivuoto, fece per accenderla. Ci ripensò, decise di lasciarle anche quella. Aprendo la porta, la posò sulla consolle in ingresso.
Silvia ebbe improvvisamente freddo, andò verso il bagno con l’idea di una doccia bollente. Scorse la sigaretta e, con un gesto isterico, si mise le mani tra i capelli, tirandoseli all’indietro. Quindi gli occhi le caddero nel mazzo di tulipani gialli che Tonia le aveva portato qualche sera prima, e si sentì meglio. Giocherellò un po’ con la sigaretta, poi se la portò nel bagno, valutando che forse avrebbe dovuto rassicurarlo, in qualche modo. Era un uomo talmente calato nel suo tempo, così attaccato alla prestazione. Le sarebbe dispiaciuto saperlo con l’amaro di essere rimasto per tutte quelle ore concentrato solo su se stesso.
Tirò lo sciacquone e restò a guardare la sigaretta che tutta intera s’inzuppava e vorticava, sempre pensando a lui. Sperava non si fosse accorto di quanto aveva sofferto il non sentirsi amata.
Rette parallele che non trovano punto d’incontro.
Mi fa compassione quest’uomo insicuro e allo stesso tempo, forse proprio per questo, narcisista.
Bella come sempre la tua scrittura, incantevole e lussureggiante.
Compassione, sí.
Grazie che passi, Mela…