Bruno.

Sono un pugno di ricordi nelle teste degli altri e qualche fotografia a fare il tuo cerchio, dicono. Fotografie nella scatola, alcune in mezzo a un libro, altre messe dentro al telefonino. La tele è un brusio che si amplifica nel lavello, la sedia comoda è il solo viaggio che non avresti mai fatto. Certi giorni sei muto. Loro parlano sempre, invece; anche di sentimenti e di sofferenza. E anche allora sono come le voci dei documentari – nessuno sospira più. Dicono che è la vita che hai vissuto, piena di sbagli, la risposta a perché sei qui, solo, a ricevere aiuto e zero amore, bloccato, senza mai ritornare altrove – restando, e nemmeno sai più che non c’era scelta. 

Gaetano.

Tu già lo conoscevi – e ti terrorizzava – questo destino a dover reimparare l’intero mondo ogni giorno senza riuscirci: ogni giorno ricominciare daccapo, e non impararlo affatto. E una stanza non salva, troppa luce dalle fessure che non hai fatto in tempo a far chiudere. Solo il buio confonde l’ostile ora che ogni rito è dissolto – l’orto, se l’avessi visto, stamani era più che mai un caos di grigi e vitreo verdume, inverno e abbandono.  Eppure, dalle fessure s’anticipa un fremito di salso, come quando la primavera c’era da qualche parte e poi arrivava.

Laica.

Qui, mentre ti si sciolgono i lineamenti, la tensione dell’insicurezza cade e la pena ti riperde. Tutto cambia, nel sonno. Non hai più paura, di niente. Non t’incastri tra le gambe delle sedie, non t’arresti lagnandoti contro un angolo come t’avessero sbarrato improvvisamente il percorso. Non ti cedono le gambe –  sei come un tempo. Se penso che i tuoi plaid, comprati a due soldi al mercato e lavati centinaia di volte, sono come nuovi… Chi dice che le cose non durano più niente? Oh, chissà se farai corse stanotte, se come allora guizzerai sull’erba alta, se ti sarà nitido il mondo e mi riconoscerai, se ti tornerà la voce e abbaierai – all’altra riva, o a una mano ché non t’accarezza. Dormi. E durerà quest’incastro di vertebre e costole – la tua schiena sottile nel mio fianco.

Ginetta.

Un tempo vedevi lampi dentro le vite dei vecchi. Erano lampi dagli occhi all’abbraccio, dal ventre alla morte, dai fari sulla provinciale alle tempie nelle case le sere d’estate quando non c’erano i condizionatori: stanze enormi, viste adesso da lì, dove la gente si muove pochissimo e apre bocche prive di suoni, fa gesti che quando finalmente scoppiano per la concitazione allora, però, c’è un bambino che si spaventa dietro la porta a vetro – opaco, ma mai abbastanza. Oggi, nessun lampo. Il rimpianto può torcere il busto all’indietro, ma il pentimento ti piega: il cranio tra le ginocchia. Dura un attimo, perché ora che sei vecchia tu è tutto un daffare tra tv e telefono per far venire domani.

Al parco

Seguendo un programma minimo, spingevo la quattro ruote di mia madre con accanto la canetta in demenza senile che tende a buttarsi sotto il mezzo: se la fai passare a destra, lei taglia verso sinistra, stringendosi alla carrozzina poco a poco, tanto da farsi pestare una zampa se non ti fermi o non la tiri indietro (e allora, dici, avrà la spinta a sinistra nel cervello, wow, così la fai passare alla tua sinistra, ma vien fuori che ha pure la spinta a destra: poco a poco converge e, lo stesso, si butta sotto le ruote). Insomma, difficile passeggiata serale, dopo lungo tempo, al parco della mia giovinezza, dove con il mio primo vero amore (cana) misi bene a punto la prospettiva quattro zampe e imparai il dissetarsi di verde dagli occhi di un essere non eretto.
Ieri sera si prevedeva molte zanzare, le tartarughe straordinariamente moltiplicate nel laghetto, almeno una congrega di fanciulli con musica trap da una cassa mobile, un corner shop segreto ma movimentato, con qualche palo placidamente ansioso, un certo numero di passeggiatori col cane, qualche serio camminatore e poco altro. E, invece, c’era anche un tizio con ogni aria di essere il tizio di una band, su un palco ben allestito nello spiazzo di fronte all’auditorio, con le luci giuste, e vere sedie da spettacolo disposte in file per gli spettatori, poi una consolle con due operatori affaccendati, qualche omone sul margine con la scritta STAFF sulla schiena, insomma: uno spettacolo vero.
Il tizio aveva un che di navigato e persino di mainstream, ma mia mamma ci vede poco, la cana è sorda e io sono ignorante. Dall’assolo del chitarrista elettrico, beccato appena giunte, da un paio di frasi sui genovesi e una cover di De André non potevo certo riuscire a capire chi fosse. Ad ogni modo, a lei interessava. Poi, la voce non era male, la musica boh, perché non restare?
Google, interpellato dopo poco in merito a quale evento fosse in corso sul posto, ci ha rivelato il suo nome. Tra stupore e contentezza, lei ha detto che era un sacco di tempo che non le capitava d’incontrarlo (sullo schermo tv, ovviamente): come non restare? Eccoci – il pubblico.
I presenti – non pochissimi, non tantissimi – sembravano coinvolti. Erano quanto meno attenti: su poltroncina, su bicicletta, con cane al seguito, coi bambini in distaccamento di sicurezza, agitando qua e là ventagli, alcuni vestiti da stasera si esce, altri vestiti da dormo in terrazzo, ciabatte di fortuna e i fiori bianchi del sudore sulla maglietta. Tutti catturati nell’aria ferma come in un notturno di Hopper, a dispetto di quel velo leggero là in fondo, agitato da chissà che fiato.
A dire il vero, quando s’è capito che il tizio è uno che fa precedere i pezzi che canta da un significativo blablà, mi sono fermata anche volentieri. Non che mi interessi il blablà nelle sere d’estate, ma… è che oramai mi si sta costruendo una bella tassonomia dei concetti espressi da quelli che parlano prima di cantare durante questi concerti appoggiati come per caso così, aridamente, su superfici impenetrabili, dentro angoli di strutturale ostilità a qualsiasi fioritura. Ogni volta spero di poterla ridefinire, la mia lista. Ma ogni volta la gerarchia si consolida. Al limite, c’è qualche scambio tra posti contigui o, sempre al limite, il caso specifico suggerisce un termine sostitutivo per meglio esprimere una categoria già presente, per sgrezzarne la forma.
Riporto qui solo cinque esternazioni-chiave di ieri sera, senza dire quante e quali siano per me new entry: accreditato (amico-di-questo-e-quell’illustre), scomodo (dice-le-cose-come-stanno), solo (unico-in-Italia-a-farlo), censurato (…), fatto-fuori (…).  Son già cinque? Ne aggiungo una soltanto: anticipatore (testi-di-trenteppassa-anni-sembrano-scritti-oggi).
Applausi. Il bis. Mia mamma s’era commossa alla prima apparizione del quarto concetto, cioè quasi subito; la cana aveva dato segni d’insofferenza, ma non immediatamente; io ho giocato alla piccola grounded theorist fino alla fine. Il pubblico, ecco.

I_miei_vicini.7(Antonio)

Lo spettacolo delle cose ha un esordio a ogni nuova luce, cioè ogni volta che Antonio apre gli occhi. Perciò, i suoi giorni sono sempre pieni di miracoli – e i miracoli cosa sono se non quelle repentine e talvolta dolorose aperture e riaperture del petto anche se niente era facile, niente era benevolo, niente era interessante, niente era giusto. Improbabile riuscire a orientarsi, così. E provare a farlo, fino a notte fonda iniziando ogni giorno dopo il caffè doppio che arriva più o meno all’alba, è il suo lavoro. Non che raggiunga chissà che esiti, eh. Quest’estate, poi, la mattina specialmente – i piedi nudi sotto gli oleandri e lunghi aghi di pino tra le dita, con quel po’ di fresco esalato dal recinto di cemento – gli capita spesso di rimanere perso per ore tra indecifrabili segni sparsi ovunque – anche nelle immondizie trova segni, certamente. Insomma, che riesca a orientarsi non lo si può certo dire; ci prova, ecco. Sarà perché l’occhio tramuta tutti gli assemblaggi in specchio già mentre li crea. Sarà perché oggigiorno l’imperativo empatico è tanto inesorabile quanto di moda. Oppure sarà perché lui, di suo, ha sempre tanto sentito, e tutto gli passa dentro. Sarà per questo – o qualcos’altro ancora – che il bianco e il nero entrambi lo commuovono e anche ogni tono di grigio, purché non gli coincida del tutto. Purché, cioè, sia garantito quello slabbramento dell’esistente, anche breve, dove io non sono più io e alter non è più alter. Ecco, è sempre stata in questo la sua ambizione di esserci e, ancor più, di non esserci: realizzare la sovrapposizione imperfetta. Quindi salvarla, l’imperfezione, buttando via le parti che combaciano.

I_miei_vicini.6(Mauro)

I soldi della pensione non sono molti, ma è per l’invalidità, perché non è che gli abbiano mai versato contributi coloro per cui ha fatto qualcosa – e qualcosa, senza dubbio, l’ha fatta. Se non ha fatto moltissimo, è colpa della gamba destra, che l’ha segnato, eccome se l’ha segnato, fin da bambino – a scuola lo chiamavano lo zoppo e dio solo sa quanto ci stava male. Non sono tanti, i soldi della pensione, e infatti ora ha qualche altro piccolo bonus. Comunque, non è che a lui interessino, i soldi. Di certo non è solo al mondo. Cioè, un tetto ce l’ha sempre, e che tetto: nel centro vero del paese. Il mangiare tutti i giorni mica glielo negano, gli altri. E meno male che ci sono loro. Se invece il mondo avesse mantenuto le promesse – se lavori onesto, di sicuro te la cavi, mentre se provi ad arrangiarti con questo e con quell’altro, prima o poi muori di fame – beh, tutti sarebbero già belli che crepati, da un pezzo, tranne lui, forse, bestia rara: apprendista a dodici anni, magari adesso sarebbe un riccone. La verità è che ci possono essere tremende casualità, momenti sfortunati, fatalità che ti distruggono come niente, se hai preso una strada precisa, che è giusta, va bene, ma che esclude tutte le altre a priori e diventa l’unica disponibile: perciò, non hai margine di adattamento a nuove circostanze. Dice di essere stato cocciuto, controcorrente e ingenuo, da ragazzino, Mauro. Aveva snobbato l’arte dell’arrangiarsi, s’era preso la licenza elementare ed era entrato in bottega. Il capo era un tipo difficile, un vero burbero, mica gli andava bene niente, per quanto gli avesse voluto bene da subito. Pagare, da un certo punto in poi lo pagava, sì, ma poco – i primi tempi, zero, diceva anzi che gli faceva già un piacere a tenerselo in bottega, ed era vero. Ad ogni modo, quando dopo qualche anno è morto, ecco, lì è finito tutto anche per Mauro. Insomma, è andata come è andata, ha fatto qualche sbaglio, ma la sua gente non l’ha mai rinnegato e lui deve dire grazie, perché è solo per loro che ora sente di avere bisogno di niente e quando arriva la pensione può chiamare le due figlie e i nipotini per andarsela a mangiare. Vanno al ristorante, scegliendo tra uno di quelli rinomati, in paese. Vanno in mezzo a tutti; prendono quello che vogliono. Lui si dà una ripulita, per non essere di disturbo agli altri clienti, cioè, per non rischiare di essere cacciato via, ché non si sa mai come la pensano quelli che ti ritrovi davanti. Anzi, a dirla tutta, si mette proprio in ghingheri, quel giorno è fresco come una rosa – gli piace sentirsi così, ogni tanto. Poi, cerca di ridere poco e, soprattutto, di restare sobrio: prova a bere quel tanto, come fanno i signori, per accompagnare il pasto. Così, tutti quelli che lo vedono capiscono che, quando è il caso, anche Mauro lo zoppo sa essere a modo. Comunque, lui non è come gli altri, non spaccia – in quanto a rubare, neanche rubano più gli zingari di qui. Tanto, a lui non servono soldi, da quel punto di vista si sente sicuro. Certo, un letto, un pasto, se non glielo negano è anche perché di fare qualcosa, ogni tanto, glielo han chiesto, e lui ha eseguito, giusto per contraccambiare – ma niente di che, e comunque, il suo portafogli vuoto è rimasto, in ogni caso. Insomma, l’ha sempre fatto per loro, mai per sé o, meglio, solo parecchio indirettamente per sé. Si capisce benissimo che non è tipo da traffici, lui, anche solo a vederlo, anche solo da come ti chiede un euro per il caffè e da come dice “va bene, la prossima volta allora” se gli rispondi che non hai spiccioli – sì, qui costa ancora un euro quasi ovunque, il caffè. E se una mattina, andando a fare colazione, lo incontri e finisce che te lo porti dietro fino al bar e gli offri, oltre al caffè, una pasta, lo vedrai buttar giù il suo macchiato velocemente, dopodiché chiederà che gliela si incarti, la pasta. Dunque ti saluterà al volo e se ne andrà.  Penserai che se la porta a casa, per mangiarsela più tardi, o per darla a qualcun altro. Ma andando fuori anche tu, e girando l’angolo, vedrai che se la sta mangiando lì in fretta e furia, come l’avesse rubata. Alla prima occasione, poi, con calma, ti spiegherà che è stato solo per non fare tanto casino al bar, perché gli cade sempre tutto lo zucchero a velo addosso – e sul cornetto alla crema ne mettono parecchio. Soprattutto, però, avendo pochi denti – gli incisivi partiti tutti – facilmente gli cadono non solo falde di sfoglia dalla bocca, ma anche mezzi bocconi. E poi, stare gomito a gomito con quelli a posto non può funzionare – lo sa bene che non è il suo posto: questo lo dirà tutto nella gola, strizzandoti l’occhio.

I_Miei_Vicini.5(Lella)

L’unica ragione che la porta fuori il pomeriggio sul tardi, tra i recinti ancora roventi, è la pesantezza sospesa che l’immensa buganvillea ti riversa negli occhi asserendo che c’è una sontuosità irriverente nel poco e poi urlandoti dietro che non capisci niente, mentre l’oltrepassi dopo aver lanciato un’occhiata alla casa cui s’appoggia nel dubbio se non sia lei invece a sostenere l’edificio.

Raggiungerà il parco appena uscita dall’isolato di case basse, di auto parcheggiate perennemente in divieto e di cani mai stanchi di presidiare confini. Poi siederà sull’unica panchina all’ombra, tra gli aghi secchi dei pini marittimi e si sorprenderà del bianco rosato di un convolvolo in emersione – sotto i pini non cresce niente, le diceva sempre suo marito. Penserà, sorriderà, tremerà immaginando come sarà l’indomani pomeriggio: certamente avrà ancora meno forze di oggi, la temperatura sarà persino più alta di questi 37 incredibili gradi, il cielo ancora meno terso e gli inquilini del piano di sopra, dopo essersi sputati l’un l’altro veleno in portoghese per tutta la mattina, annienteranno ogni slancio collettivo in un misto fastidioso di singhiozzi – lei – e tremendo silenzio – lui. Certo, ci sono varianti disponibili. L’indomani pomeriggio potrebbe essere diverso. Ma la gamma delle possibilità è nota, oltre che ristretta: niente sarà veramente sorprendente, e i bambini di queste case, qui attorno, saranno già grandi, anche domani cresciuti in un batter di ciglia senza che qualcuno abbia saputo immaginare la giusta chance per loro. Anche domani, insomma, sarà tutto perduto, pensa. E rivede Sabrina, le guance rosa, la treccia lunghissima, una vera maga delle tabelline, immaginava di fare il medico. Così anche Davide, lungo e sottile e col pallino del berretto in ogni stagione, finché non s’é rinchiuso in una stanza. Nessuno va mai dentro da vent’anni quasi, a parte la madre, che si lamenta sempre della sua scarsa propensione all’igiene: non vuole farsi né barba, né capelli, e in aggiunta si lascia lavare pochissimo. Sabrina ha sempre lavorato nel piccolo negozio dei suoi, invece. Ed ora che tutto è cambiato, poiché non riusciva a tirare avanti senza rischiare che l’indebitamento si facesse irreparabile, l’ha chiuso. Perciò, bada a qualche anziano a ore, ché sti anziani, qua, non possono permettersi di più. Allora, le vien in mente Rosa, così pallida e tonda, così dolce con tutti. Sì, lei l’aveva immaginata proprio al suo posto, insegnante: se non alle elementari, magari alle medie, o alle superiori. Invece, ha sempre fatto la stagionale: dodici ore a sgobbare nella cucina di un albergo, o di un ristorante, estati che ti consumano, inverni che ti senti così povera di senso… Ma almeno c’è la disoccupazione, così vai benedicendo santa estate, ché se non ci fosse andresti battendo la testa contro i muri ogni stagione. Lo stesso fa Peppe, benedice l’estate. Doveva fare il manager, lui, per quanto era sicuro di sé, il più di polso e determinato di tutti. S’è ritrovato invece a fare il guardiano di un campeggio da maggio a ottobre, e fortuna che gli dura da anni – l’università: mai finita. Ripensa anche a Marietto. I suoi non abitano più laggiù, all’angolo con via Lago Maggiore; si sono spostati solo di un isolato, in una casa molto più piccola. Hanno sempre avuto cani discreti, i soli che non abbaiavano, a nessuno, ma forse erano troppo discreti anche loro e non gli hanno mai messo un vero freno a quel figlio così esuberante, che ha mezzo ucciso sua moglie solo perché voleva lasciarlo. Ma che puoi aspettarti da un drogato musone – adesso, ché da piccolino era un gioioso vulcano di gentilezza, diceva sempre ciao Lella, anche da lontano, ciao Lellaaaa, e tu magari non lo vedevi ma gli rispondevi forte, ciao gioia mia. Gliene tornano in mente tanti altri, di bambini, come spesso. Queste memorie, dono dei suoi passi lenti e incerti e della pressione bassa, sono la continua conferma di come sia tutto sbagliato, il mondo, e l’esistenza nient’altro che un agguato a ciò che siamo davvero. Ed è importante saperlo, non scordarsene, ripensarci sempre. Le compare un bambino quando si sofferma all’ombra di una casa, quando l’occhio le va verso questo o quel cortile, quando avverte un movimento tra le tende dietro una finestra, quando scorge una sembianza familiare che parcheggia un’auto mai vista – il figlio di, o il figlio del figlio di. C’è sempre un bambino caro qui, per questo non ama allontanarsi dal quartiere, prendere la vecchia Panda 4×4 e fare le sue passeggiate dove è più fresco, magari al mare. Il punto è che, nonostante i suoi molti anni, qui in quartiere non ne ha visto ancora uno, o una, che abbia fatto quel che suo padre chiamava il salto, il vero salto. Certo, qualche professionista è venuto fuori, un medico internista e uno psicologo, persino, poi una avvocatessa, un professore universitario nel ramo dei computer, una ricercatrice di biologia – molecolare, forse – e qualcun altro che ora non le viene in mente. Ah, sì, ecco, c’è pure uno che scrive per la televisione, ma non solo, e pare goda di una certa fama nell’ambiente. In realtà, però, a conti fatti, non han saltato un bel niente, loro. Forse, quella di suo padre era una narrazione inverosimile di come possono andare le cose, perché in generale, qui, i figli, quel che fanno è, anzitutto, disseccare le storie dei loro vecchi – e fortuna che c’era, qualcosa da disseccare.