Fare

– Qui si tratta sempre di fare, fare. Eppure l’argomento noia viene fuori spesso, nei discorsi di tutti, perché ora ci sarebbe tempo libero a volontà: macché!
– Hai ragione. Cos’è la noia, poi.
– Gli argomenti, qui a casa, non sono altro che le statistiche sbagliate, le statistiche esatte, la lista della spesa, cosa preparare per pranzo, per cena e per merenda, come inventarsi un lievito efficace, che non lo trovi neanche a pagarlo oro, in negozio, ahahaha…
– L’ho già sentita questa del lievito. Allora sono andata su Google Trends, ti ricordi, dove vedi comparativamente le chiavi di ricerca utilizzate in un dato periodo di tempo…

Ricordava Google Trends, e così le ho raccontato che nell’ultimo mese, a parte l’impennata smisurata della chiave “coronavirus”, comparabile con niente, la gente ha avuto bisogno di informarsi quasi zero sugli eurobond e invece un poco su Burioni, il quale  tuttavia pare aver suscitato meno curiosità che Sgarbi, per restare su personaggi controversi – ma quanto lo detestiamo, eh? E’ il termine “lievito”, però, l’interessante sorpresa: il suo enorme distacco medio dalle altre voci, con una prepotente crescita da verso metà marzo. In tempi di coronavirus, alla gente serve imparare a fare il lievito, sì. Pareva molto interessata, così le ho inviato il link al grafico, tramite email, ma non aveva il computer a portata di mano e il cellulare era utilizzato nella conversazione, perciò: Lo guarderò più tardi – ha detto – e credo lo userò coi miei studenti. Sono contenta che mi confermi la mia impressione: stiamo tutti andando fuori di testa per questo bisogno di fare, fare…

Le ho confessato che invece io sono sempre presa dalla dimensione contemplativa dell’esistere e non faccio un cazzo, ora meno che mai, anche perché deve essere scattato qualche meccanismo perverso che fa andare il tempo più veloce.

– Sì, è vero – quasi ha sussurrato guardando dritta nel cellulare – il tempo passa così velocemente che ci ritroviamo con le chance già bruciate giusto quando realizzi che erano chance. E se ci inventiamo cose da fare, io credo, non è perché ci avanzi tempo, ma solo perché ci siamo scoperti all’improvviso con niente da raccontarci: fare è un po’ un modo per gestire quest’imbarazzo.

Quest’ultimo pensiero lo ha trasferito nel video quasi in tredì, assieme a tutta la pena che ha provato riflettendoci su più e più volte, perché ci sta rimuginando da settimane, lo vedo quasi bene anche così, da molto lontano, in questi movimenti singhiozzati dentro un’eco stranissima.
Anche lei in verità mi sembrava stranissima, cioè quello che diceva era così incorniciato di concretezza: del tutto inusuale per i nostri discorsi di un tempo. Parlava in modo così diretto poi, senza quei giri di parole suoi tipici. E anche la sua immagine era strana: arrivava quasi mescolata alle cose di un luogo che non riconoscevo, con quella luce fortissima che falsificava tutti i contorni.

– Senti, cosa è cambiato nella tua cucina? Mi sembra diversa.

– A parte il disordine risultante dall’affollamento continuo, è tutto uguale.

Adesso stavano tutti in salotto, avendole ceduto l’intera cucina per un po’. Quindi sembrava esserci tranquillità, ma in realtà era la stanza più infernale, a suo dire.
Non capivo come avesse posizionato il cellulare, mi aveva videochiamata tramite whatsapp, ma chissà com’è che ha le mani libere, con tutto quel gesticolare, che mi pareva molto nuovo
anch’esso: non me la ricordavo così bisognosa delle mani, per dire le cose.

– Hai un cavalletto per il cellulare – chiedo con tono da presa in giro.

Ride. Si è organizzata: ha appoggiato lo smartphone a una pila di libri con piani sfalsati, sul tavolo. Prendendo in mano il device, mi mostra l’ambaradan, wow. Ho avuto l’impressione le stia capitando spesso d’intrattenersi in chiamate video, gliel’ho domandato. Mi ha spiegato che all’inizio ha fatto fatica, non si voleva adattare, ma poiché è l’unico modo per non perdere i contatti, oltre che per lavorare, s’è presto rassegnata. Così ogni sera, per esempio, videochiama i suoi, dopo cena, e tanti altri appena può. Non mi ha chiamata prima, da quando siamo in quarantena, perché voleva un momento veramente tranquillo per stare un po’ con me e non è che ce ne siano molti avendo sempre tutti gli altri in casa.

– Ma che casino! – sospira – ne usciremo?

Rispondo di no. Lei tace. Avrei potuto almeno dire: Non lo so. O anche: Speriamo di sì. E invece ridico: No, temo che se mai ci potremo rivedere dal vivo, sarà una volta all’anno, o anche meno; per il resto, sopravvivendo, faremo una vita più che altro così, in diretta streaming, con te che ringiovanisci invece di invecchiare, con tutta quella luce che ti spari addosso e il fondotinta tipo cerone da studio televisivo.

Risate. Dice che non s’è truccata stasera, di solito lo fa al risveglio, dato che quasi ogni mattina si collega coi suoi studenti o coi colleghi e, dunque, ha una immagine da salvaguardare. Ridiamo, sì. Chiedo se anche lei, come tanti, scelga la libreria come sfondo per le sue dirette professionali. Dice: Ovvio, ma è stato un bel problema all’inizio. Cioè, se ti ricordi, noi non avevamo uno studio, il salotto era lo studio, solo lì c’erano le librerie. Ma in salotto: zero tranquillità. Così abbiamo spostato uno scaffale, solo uno, scegliendo con cura i volumi da metterci, lo abbiamo sistemato in – non ridere! – in lavanderia, dove abbiamo fatto un po’ d’ordine, messo un paio di lampade a led. Insomma, ci siamo arrangiati.

Mi sono mostrata sorpresa, tanto sorpresa, poi le ho ricordato di quel mattino di un secolo fa quando nella frenesia mortifera della metro londinese scoprimmo, non senza rimanerne scioccate, che diversi uomini, anche giovani, sotto la giacca strapazzata nella ressa e nello sforzo d’aggrapparsi a qualcosa, avevano una finta camicia. Non l’avevamo mai vista, noi, una finta camicia.
Ripenso a quelle volte in cui qualcosa s’inceppa e la scena crolla, nelle nostre drammatiche esistenze. Diosanto, quanto si perde della sacralità dello stare insieme se un retroscena finisce dentro quella che doveva essere la scena: è come tradire un patto, caricare gli altri di responsabilità enormi. Hai fatto bene – le dico – tu sì che sei saggia. Però, non oso svelarle come invece sono trascurata io, anche in queste cose, e come me ne frego del gioco delle rappresentazioni nelle tele-lezioni, quelle specie di macchine rozze a cui tutti fingono di credere ciecamente ma solo per non essere quelli negativi, i guastafeste, eterni adolescenti irrealistici come me.

– Sai, ho creato anche un canale video, pillole di consigli bibliografici, hai presente?
– No, non ho presente. Raccontami!
– Cioè, parlo di libri che trovo interessanti per i temi del miei corsi, ma anche vagamente pertinenti. Non sono vere e proprie lezioni. Sono sempre disponibili e accessibili, quindi chi si occupa di…

Non ho lasciato che terminasse, gliene ho chiesto il link. La prossima volta possiamo sentirci su Zoom, ha detto lei, lì è più facile scambiarsi cose subito. Come no – ho fatto, ironica e iniziando ormai il mio conto alla rovescia, ché non è stato bello rivedersi così. Non mi interessa che ci tele-incontriamo, non è in queste cose che vorrei ci spendessimo, perché ci vuole corpo. A me serve corpo, sì, il mio, il tuo, di tutti. Ma non gliel’ho detto, ché a certi sembra solo un capriccio, in un momento così. Prima di chiudere, le chiedo se mi ci vedrebbe a fare la volontaria per esempio in una mensa per poveri, adesso.

– Non fare pazzie, al tuo solito, non adesso, okay?

 

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