Passi oltre l’abbaiare che arriva da una cucina al piano rialzato. Gli scuri semichiusi, le zanzariere giù, le finestre aperte sul tanfo di casa, che è la somma delle svaporate di cavolo e cipolla e dei processi fisiologici di ogni occupante: sono resti stratificati, che senti benissimo. Intervallano gli strati di pittura su muri che, attraverso il verdino e il rosa, sono passati dal beige al bianco e poi al tortora nell’arco di qualche decennio. Nessuna occhiata da buttare dentro, qua.
Un pianto d’infante arriva dal palazzo che segue. È il terzo piano, o il secondo, forse proprio lì dove stanno persiane e finestre spalancate sul terrazzino adorno di fior di vetro color corallo, fragili, cadenti e allegri, completamente opposti al dolore che senti. È cemento, se ci pensi, il dolore: il tuo e tutto quello che sembra tenere in piedi lo stesso edificio, garantirne l’altezza superiore a tutto tranne che a un paio di abeti e quindi quell’aria tronfia, da dietro un bel colore verde palude e gli scuri di freschissimo smalto marrone. Lo rintracci già nell’intonaco, il dolore, se ne sfiori il graffiato sottile che parla delle unghie di cento e più gravidanze, poi delle urla di tutti i parti fatti, quella volta, sui tavoli delle cucine. Passi oltre.
Accanto, il palazzo è color biscotto. Terrecotte perlopiù vuote, o con qualche filo di paglia che s’erge insensato, raccontano la cura d’un tempo da alcuni balconi finto-abbandonati, con gli infissi sconnessi e un coagulo scuro di scarpe e altre cose sulle piastrelle un po’ rotte, poi il bianco bello delle antenne paraboliche attaccate ai parapetti. Passi oltre ancora. C’è già a bastanza stridore, tra il generale bieco esistere e tutto il sangue tradito da certi slanci: le poche avvenute partenze definitive, l’illusoria provvisorietà dei nuovi arrivi, con gli incastri socioculturali traslocati tutti quanti – per poi scoprire che servono quasi a niente qui, anzi, spesso intralciano.
Oltre anche al condominio color muschio, passeresti, ma da un garage una radiolina manda suoni mono che vorresti riconoscere. Ti trattengono. E ti trattengono pure il basculante tirato su per tre quarti, l’utilitaria rossa mezza dentro e mezza sull’asfalto del marciapiedi, il semi buio dietro il rosso e il ritmo rapido dei colpetti di martello su teste di chiodi da infilare indubbiamente nel legno. Indugi, non passi. Così s’affaccia un uomo canuto e un po’ curvo, in tuta da ginnastica e ciabatte – starà pensando tu vada in cerca di qualcuno. Con una mazzuola tenuta a pugno stretto giù lungo un fianco, interroga il tuo aspetto su intenzioni e obiettivi, senza ricambiare quando gli sorridi. Allora riprendi velocità, ché non ci si saluta, qua, tra sconosciuti. Mica stai dentro un vecchio borgo del Centro o del Sud, mica su un sentiero di montagna, mica è una strada d’Irlanda. Sei già a casa.
Tutta la potenza “intrecciata” di colori, odori e rumori.
Ciao Tullio..
Lieta sera
A te. E di bagliori la notte..